Con il presidente Obama a cinquant’anni dal tragico evento
La storica giornata è passata inosservata ai più: in Italia e all’estero. Parlo del 9 marzo di cinquanta anni fa. Un giorno. Un ponte. Una storia. Laggiù, in Alabama, uno degli stati americani del sud fra i più razzisti, avvenne un fatto destinato a cambiare la storia di quella grande nazione. Migliaia di americani, in maggioranza neri, in marcia da Selma a Montgomery, la capitale dello stato, per rivendicare la parità di diritti per tutti i cittadini. Nella costituzione americana, l’obiettivo, dopo gli eventi della guerra di secessione e la sconfitta dei Confederati, era conquista universale per i cittadini di ogni colore, credo e provenienza.
Solo sulla carta, tuttavia. Negli stati del sud imperava la discriminazione razziale favorita dai movimenti più violenti e xenofobi la cui plastica rappresentazione era personificata dal movimento degli incappucciati del Ku Klux Klan. Organizzazione segreta, formalmente operante al di fuori della legalità, tollerata e incoraggiata dalla parte più retriva della classe politica. La separazione era una realtà in ogni struttura pubblica.
Di fatto proibito, per gli afroamericani, l’accesso agli studi superiori e universitari. La marcia della libertà da Selma a Montgomery perché questa vergogna avesse a essere sepolta nel buco nero della storia. Era l’otto marzo. E come racconta una leggenda, quando la marea umana raggiunse il ponte, l’azzurro del cielo si oscurò coperto da nuvoloni neri da sembrare notte fonda, come avvenne più di duemila anni prima nel mentre Gesù Nazareno, il giusto, emanava l’ultimo respiro su quella croce che avrebbe cambiato la simbologia dell’eterna lotta tra il bene e il male. Vero o no, il racconto fissa con lucidità cristallina ciò che avvenne.
La marcia dei combattenti per i diritti fu arrestata sul ponte. Fu il “Bloody Sunday”. Molti di loro immolarono la loro vita nel sangue dei vinti. Pochi mesi dopo, l’allora presidente degli Stati Uniti d’America, Lyndon B. Johnson firmava, alla presenza di Martin Luther King, il Voting Rights Act per consentire ad ogni cittadino l’effettivo accesso alla partecipazione politica. Il seme della protesta era nato qualche anno prima, nel 1960. Fummo colpiti, allora, dall’avvento, nella politica americana, di due giovani fratelli di cui l’America si sarebbe poi occupata negli anni a venire. L’uno, John, si apprestava, dopo aver vinto la candidatura democratica per la Casa Bianca, a battersi per l’elezione a Presidente degli Stati Uniti. Poco più che quarantenne, portava nella campagna elettorale la speranza di una nuova era per l’America e il mondo.
L’altro, Robert, più giovane di otto anni, lo sosteneva e incoraggiava dall’alto del suo ciuffo ribelle. E fu che, almeno per me, vinsero assieme, sconfiggendo quel Richard Nixon, già vice presidente con Eisenhower, allora il peggio della politica conservatrice e reazionaria della nazione. Non tutto andò per il verso giusto, basti pensare all’avventura della Baia dei porci per abbattere la rivoluzione cubana di Fidel Castro e uccidere sul nascere le speranze di un’era nuova per tutto il continente latino americano. Fu, tuttavia, una scintilla liberatrice, drammaticamente interrotta, due anni dopo, a Dallas, con l’assassinio del presidente Kennedy . Toccò al fratello Robert, nel sessantotto, alla fine della presidenza Johnson, rialzare la bandiera della nuova frontiera. La sfida era ormai vinta e la candidatura, per il partito democratico alla presidenza degli Stati Uniti, un fatto acquisito. Il suo assassinio, il sei giugno, a Los Angeles, nella serata celebrativa del trionfo alle primarie, interruppe l’epopea dei Kennedy e il mondo pianse la fine di un sogno.
Sono molteplici le ipotesi del perché ciò avvenne. Si parlò di mafia, intrighi internazionali e altro ancora. Sono personalmente convinto che, con l’assassinio dei due fratelli, il razzismo americano cercò di interrompere sul nascere l’avvento di una nuova era di libertà e liberazione umana. Più Robert che John, ne fu il simbolo. Il treno funebre con la bara di Robert, da Los Angeles a Boston, fu salutato, nell’interminabile viaggio, da milioni di uomini e di donne. Si racconta che il canto e le preghiere delle masse nere risuonino ancora nelle praterie della nazione perché la fiaccola che rischiara la lotta per la libertà non può mai essere spenta. Ci sarà sempre qualcuno, in America e nel mondo, pronto ad alzarla per rinnovare la speranza. “I have a dream”, ho un sogno, con l’urlo della libertà di Martin Luther King.