Per tutta la durata del viaggio da Lilibeo a Nicomedia, Lattanzio si era arrovellato sul graffio che il colloquio con Porfirio aveva inflitto al suo orgoglio, né era riuscito a rimuoverne l’effetto. Il gusto più sgradevole, oltre che dalla superiore statura del filosofo, che nemmeno obtorto collo riusciva ad ammettere, gli veniva dalla stizza di aver riconosciuto in sé ancora una volta tracce dell’antica viltà. Si trattava di una debolezza di cui era ben consapevole, e contro la quale non poche volte aveva fatto ricorso, per giustificarsene, all’artificio che l’indulgenza fosse preferibile all’arroganza e la prodigalità più meritoria del pregiudizio.
Il suo spirito tortuoso ripiegava in tal modo sul beneficio del dubbio, che lo portava a dirsi che alla ricerca della verità occorrevano strumenti più persuasivi dell’intelletto. Quello stesso strumento, cioè, di cui si era abbondantemente servito nei processi, per confondere i confini tra vero e falso, in obbedienza a un’etica discutibile che non perseguiva il trionfo della giustizia, ma solo il formale ossequio alla legge. E se legittimo gli sembrava il ricorso alla logica, quando decollava nelle aule di tribunale, non si sentiva affatto a disagio se un momento dopo faceva posto al cavilloso placebo dell’autoassoluzione.
Era questa sdrucciolevole disinvoltura morale che l’aveva velocemente condotto alla conversione, senza riguardo per le soste di perplessità, sterili avamposti della meta intravista. Le sue meditazioni religiose si erano esercitate su letture appassionate ma non critiche dei testi evangelici, dove aveva cercato consenso al dogma di una fede già abbracciata. La titubanza dell’indagine non era stato un tormento, ma un passaggio agevole verso una verità non disgiunta dalla santificazione; e sotto la persuasione che tutto quanto accade ha una sua ragione di essere, poteva qualificare di autenticità una formula geometrica come un’opinione arbitraria.
Qualsiasi bizzarria, per il fatto stesso di essere pronunciata, assumeva ipso facto dignità di verità, per l’evidenza che altrimenti non si sarebbe prodotta. Così, veri erano i miracoli; vere erano le fantasie più peregrine; vera era persino la menzogna. Questo spiega perché poteva prendere le difese di tesi che non condivideva, se quell’assunzione portava a ribaltare un giudizio, in assenza di criteri assoluti. Tante volte aveva umiliato la giustizia sotto accorte bugie, ancora ignorando che lo slancio etico si realizzava nell’omaggio a un principio che sussumesse e giustificasse verità e menzogna, opportunismi e acutezza, errore e malafede, nel grandioso alveo della verità.
Solo mirando alla vera essenza delle cose, l’uomo si rendeva degno di merito o infamia, pensava Lattanzio. Ma per farlo occorreva porsi sulla retta strada, oltre le concessioni alle urgenze del vivere, e senza mai perdere di vista che oltre le apparenze risplende una luce più profonda. Una luce che è compito di tutti ricercare e svelare agli altri, per contribuire alla loro salvezza, e assolvere la funzione più responsabile concessa al nostro operare. Tutto il resto, sospirava, è fandonia e gioco, vanità e orgoglio, malafede e inganno: e non merita rispetto, anche quando assume i tratti e le parole di un illustre pensatore, al quale si piega la flebile capacità critica dei viventi. Solo così si ottiene la ricompensa degli autentici meriti, e il premio di un’immortalità che consenta lo scambio del principio con il mezzo, e del mezzo col fine.
Si sarebbe potuto credere, su queste premesse, che Lattanzio inclinasse allo scetticismo. E invece, tanto tortuosi erano i sentieri della sua mente, che proprio da questa assenza di certezza era scaturita poco a poco l’esigenza di una fede più alta, che riassumeva e superava, alla luce della rivelazione, quanto di meglio aveva prodotto il pensiero greco: che però aveva brancolato in confusi tentativi nelle tenebre, in mancanza della superiore sintesi che sola poteva emanare dalla rivelazione. Quella verità che, nelle parole di Cristo, aveva azzerato ogni tentennamento e convogliato i rivoli della dispersione nell’alveo della verità. Se solo quei pensatori avessero avuto la grazia di questa luce, avrebbero inteso, piuttosto che disperdersi in sofismi, che tutto era espressione di una volontà superiore. Avrebbero inteso che la terra, e l’universo intero, erano stati modellati affinché l’uomo li ammirasse e investigasse, per trarne beneficio per sé e lode per il Creatore: il quale, nella scelta tra l’oscurità e lo splendore, non aveva esitato ad addobbare il pianeta delle più succulente delizie.
Solo l’uomo, in effetti, tra tutte le creature viventi, aveva imparato a coltivare la terra; solo l’uomo sapeva solcare i mari, non per necessità di vivere, come facevano i pesci, ma per soddisfare la sua voracità conoscitiva. Solo per l’uomo, insomma, era avvenuta la creazione. Ed era questa la grande evidenza che gli antichi non avevano colto, e perciò avevano continuato a brancicare nei sentieri dell’errore. Lo stadio più alto della sapienza, allora, non poteva che consistere in questo riconoscimento del senso, rispetto al quale ogni oscillazione di incertezza, oltre che abbaglio, era bestemmia.
Come era successo a Porfirio, che non aveva saputo comprendere quanto il dono di Dio offrisse riscatto alla miseria del vivere, per tendere al falso miraggio della sua vanità. Non aveva saputo scorgere, nel chiuso della sua angustia, la valenza di un messaggio che pure miriadi di persone semplici, solo animate da sete di bontà, avevano colto a meraviglia. Non aveva inteso che l’invito di Cristo alla rinuncia, che tanto lo aveva stupito, derivava da una morale ostile all’egoismo, che chiamava l’uomo alla condivisione dell’amore verso quel Dio che non smetteva di vigilare sul mondo, e non lo lasciava rotolare a caso. Non aveva inteso che in quel maestoso progetto tutto doveva trovare una sua collocazione, anche l’angosciante questione del male: che forse era solo premessa ad un bene maggiore, anche quando faceva posto alla violenza e al martirio.
E solo allora, visionando la tortura inflitta all’amico Donato, alle condizioni in cui l’aveva scorto, e le molte vittime di cui aveva inteso parlare, Lattanzio, perplesso, si fermò a riflettere che, per quanto dovesse darsi una necessità, certamente per sua limitazione non era ancora riuscito a trovare una logica a tanto dolore.