Nell’immaginario pubblico vi è sempre un momento che rimane scolpito nella memoria come un’ora ics della nostra storia. L’inizio di una guerra fratricida; il crollo di una struttura ideata come una straordinaria avanzata della scienza e della civiltà umane; un violento rivolgimento della natura, come avviene nei terremoti o sotto i mari; la conquista dello spazio, da quando l’umanità udì quel bip del primo oggetto che mai fosse stato scagliato oltre l’atmosfera terrestre verso gli spazi siderali; il primo battito di un cuore, non Gagarin, ma la cagnetta Laika, l’eco del cui latrato vaga, eternamente, tra le stelle del creato.
La magica formula matematica di Albert Einstein, il genio che indicò le vie inesplorate del tempo e dello spazio.
Per chi scrive, l’ora ics fu un 10 aprile del 1945. La madre che tiene in braccio il fagottino in cui strilla la piccola Etta, mia amata sorellina in cerca del capezzolo materno. Ed io disperatamente aggrappato alle sue vesti nel mentre sfila l’orda vestita di nero nell’imminenza della disfatta.
Poco più di tre anni e pur scolpita per sempre ai miei occhi è l’immagine dell’ultimo della fila: una barbaccia incolta, lacero, zoppicante, il fucile trascinato nella polvere a indicare il preludio della fine ingloriosa. Già, il fascismo è stato per me e per tanti anni della mia gioventù, quell’ultima scena.
Divago, cari amici. Divago per non andare al dunque di quanto accaduto in quel mare nostrum che ha affossato le nostre coscienze nel nero profondo del picco abissale. Una barca, un battello, un cartoccio, una bara sbattuta dall’onda, il cuoricino di un piccolo nato che ancora non ha facoltà di vedere i novelli giudei suoi compagni di viaggio. Tra essi sua madre, nel mentre il barcone si arrende all’abbraccio del mare, portando con se i cuori dei mille in attesa della terra promessa, la mitica Itaca dell’ Ulisse odissea verso la terra materna infestata dai proci. Che cosa mai è divenuto quel mediterraneo, frutto della natura o del grande mistero? Forse un mare che unisce due sponde tra loro non molto lontane? Che accoglie e miscela le genti e i loro costumi? Oppure, il lago infestato da rettili infernali usi cibarsi del sangue dei tanti innocenti fuggiti dalla miseria e dal fragore delle armi?
Non vorrei che fosse scattata l’ora ics della nostra sconfitta morale e umana. La sconfitta chiamata indifferenza, ammantata di qualche ipocrita pianto da coccodrillo pentito. Tutti o quasi, con qualche miserevole eccezione, si dicono tristi per l’accaduto. Ritengono, evidentemente, che, quanto successo, non sia altro che parte delle disgrazie di cui è pieno questo nostro mondo. Lo ritengono, senza comprenderne la sconvolgente verità.
Che sta cioè accadendo qualcosa che cambierà la nostra vita e quella delle future generazioni. Che è in atto una migrazione di milioni di esseri umani, come avvenne, forse, nella notte dei tempi, destinata a sconvolgere gli attuali sistemi politici e sociali. Nell’ora delle scelte forti e coraggiose, si assiste, purtroppo, al mutismo degli ignavi che pur governano in tanti paesi dell’Unione europea. Bene ha fatto, il presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, a chiedere e ottenere una riunione straordinaria dei capi di stato europei. Sono i risultati, quelli che più ci preoccupano.
Mancanza di solidarietà, un disimpegno dalle difficoltà, qualche moneta in più per i pattugliamenti in mare e il presunto controllo delle coste libiche – nessuno ha capito come, naturalmente – il tutto, in attesa del prossimo dramma. Ognuno ha udito le parole di quel Cameron, il grande statista della perfida Albione. Qualche nave per pattugliare. Nessun profugo nella terra del Regno Unito. La barca è già piena, è il messaggio per i cittadini chiamati alle urne per rinnovare la Camera dei Comuni britannica. Più che statista, un sensale affarista, commerciante di buoi e pollame. Da noi, per fortuna, oltre all’ariano padano Salvini che prevede le ruspe nella lotta agli zingari, almeno al governo, nella Roma che dei Cesari fu, vi è qualche cervello un po’ più raffinato e cosciente. E ciò, a prescindere che nell’urbe aldilà del Tevere sta Francesco, dalla voce suadente, solidale e amica. Lui, il giusto, fa di tutto e tante volte incompreso – il dramma armeno, docet– per diffondere un grido di aiuto. Tanto muto, da apparire, perciò, lacerante, disperato, disumano. Persistiamo a sperare nel sogno: che quel grido sia accolto per il bene nostro e di chi arriverà.