Nonostante i vigliacchi black bloc
Un primo maggio un po’ freschino. Quella sottile pioggerella, così lieve e maliziosa, da sembrare un invito per mancarle di attenzione e rispetto. Quando te ne accorgi, il primo starnuto casca sul panno inumidito. Siamo già tanti in attesa. Una massa di popolo – giovani, ragazze con l’amico del cuore, a cui non passa il minuto – fortunato lui! – senza ricevere un gradito buffetto d’amore. I gruppi organizzati sui cui volti indovini la stanchezza del viaggio unita alla curiosità di scoprire il mondo dei sogni di Expo. Le famiglie, al completo, della grande Milano. Con quella apparente noncuranza tipica di chi ti racconta di essere del luogo, capitato là per caso, perché si sarebbe annoiato tra le mura di casa al Giambellino o in piazzetta Carrobbio nei pressi del Duomo.
Popolo venuto all’appuntamento meneghino da vicino e lontano. Moltitudine di etnie e colori di questa nostra umanità vivente sulla scacchiera del pianeta terra. È la Milano operosa di oggi, primo maggio 2015, il giorno che inaugura l’evento più atteso. Sono tutti qua, i grandi di oggi e di ieri di questa nostra Italia. Il presidente del consiglio, Renzi, che inaugura l’Esposizione al termine di un discorso non letto, come usa fare, colmo di ottimismo e passione. Il sindaco Pisapia, con quella sua cantilena meneghina da ragazzo cresciuto all’ombra dei palazzi di piazza San Babila. Il commissario straordinario Sala, il vecchio presidente emerito, Napolitano, il presidente della Regione Maroni, e tante altre personalità e rappresentanti delle istituzioni. Non ho voluto mancare. Anche perché ho abbandonato Roma con sollievo al termine di una sofferta scelta personale. C’ero anch’io ad ascoltare in diretta il saluto di Francesco, tanto umile, sentito, vicino alle menti e ai cuori di ognuno, da sembrarti la voce di un misero uomo tra i tanti, un papa per fortuna o per caso. C’ero anch’io, con ancora negli occhi l’abbraccio a mia madre. Quello sguardo così acuto da scorgere il biondo porcino dall’erta che porta alla selva, oggi spento nel nulla, persino per suo figlio da lei tanto amato. C’ero anch’io con i ricordi di sempre. Cosa mai ci fosse aldilà del pizzo Pidocchio. La vetta che nasconde la luce e il calore del sole nei mesi invernali.
Domandavo, ricevendo ogni giorno la stessa risposta: Milano. Scoprii più tardi, cosa fosse e cos’era Milano. Eravamo oltre gli anni cinquanta. La famiglia Farina – padre, madre, sorella e chi scrive – prese il treno direzione Milano. Lo scomparto, una sferragliante tradotta con le panche di legno dei vagoni di terza classe dei poveri cristi. Il motivo, la visita medica, il lasciapassare per l’imminente permesso di espatrio del padre verso il Queensland dei campi di zucchero della terra australiana. Pochi chilometri. Cinque ore di viaggio. L’arrivo in centrale con quegli archi anneriti e maestosi da incutermi un certo timore. Quel tram sferragliante nel grigiore di una tarda mattina invernale, tra case color antracite e qua e là, montagnole di nero carbone.
Dell’ alba radiosa della mia Valtellina, nemmeno il ricordo, se non quell’omino appeso lassù tra i palazzi di piazza del Duomo a mostrarti, dall’alto, il luccichio di una scarpa splendente come un raggio di sole. Il Duomo lo scorgo, lui pure annerito, ma è un attimo e già siamo lontani. Ci tornai, a Milano, oltre gli anni sessanta, per compiere un atto spericolato e di un certo coraggio. Ci tornai pensando di vincere la sfida: frequentare l’università di via del Perdono e laurearsi vivendo l’avventura di studente operaio. Mi arresi pochi anni più tardi e partii per l’estero senza più ritornare. La Milano di quel tempo era molto cambiata. Ho dei ricordi tuttora ben impressi alla mente e nel cuore. Città che ti accoglie e non nega un atto di sentita amicizia e calore. Come quel venditore di castagnaccio in piazzetta che vedendo il giovanetto con un mazzo di libri, abbigliato in un modo un po’ strano, ne intuiva l’anelito e anche il bisogno, porgendone un tozzo quasi fosse del pane. Città dai capannelli in piazza del Duomo, una goccia di popolo che vuole discutere, parlare con l’altro, apprendere e dire la sua. In fondo, è la stessa Milano di sempre. Sa accoglierti e fare di te un cittadino. Successe negli anni cinquanta con i ragazzi del nostro mezzogiorno.
Accadrà ancora con le moltitudini del mondo. Per ora, facciamo gli auguri. Cinquemila lavoratori – grazie, cari amici! – nel giorno a loro caro di maggio, l’hanno addobbata per vivere un sogno.