G 8 Genova 2001, Expo Milano 2015
Durante la settimana, tra una furbata e l’altra alla Castellina, il luogo delle pomiciate con l’innamorata che frequentava il Ginnasio, cercavo, bellamente, di studiare il necessario per il salto all’anno successivo.
Lo sguardo indagatore e severo del babbo Ettore sui fogli su cui doveva apporre la firma, era sempre un momento di tensione e preoccupazione mie. Cosa dirà mai?, a quel figlio un po’ scapestrato che anteponeva le folli corse in bici, o le presenze sui gradoni dello stadio Balilla a incoraggiare il Sondrio calcio nella rincorsa verso l’allora Serie C., allo studio su quei libri maledetti che intrappolavo negli elastici, allora in uso, per poterli sbattere qua e là come inutili e odiosi fuscelli.
Divago, per entrare nel tema. Le domeniche al balilla, da sempre l’occasione per fare caciara. Insultare l’arbitro, della cui mamma erano sconosciute o irripetibili le mansioni. Dare di matto verso gli avversari, naturalmente colpevoli di ogni nefandezza. Talvolta, soprattutto nel caso di sconfitta della squadra , ci abbandonavamo ad atteggiamenti e atti che, definire ribelli, sembrami di assoluto pudore. Intervenivano gli sbirri, naturalmente, tra i quali si distingueva quel bassotto dal robusto corpaccione. Una domenica, particolarmente tumultuosa, mi afferrò e strinse il braccio con tale forza da farmi impallidire.
A casa, ragazzo! Osservai il suo sguardo tra il truce e il severo e me ne andai un po’ atterrito e malconcio. Volle il destino che lo sbirro di cui parlo divenne poi l’inquilino della casa accanto, avendo sposato una ragazza del luogo. Avemmo occasione di conoscerci meglio e di tessere una duratura amicizia. Era figlio di una tradizionale famiglia bergamasca delle montagne orobiche – sette fratelli e cinque sorelle- di cui raccontava l’epopea da leggenda omerica, commovendosi sino alle lacrime.
La vita in comune nella baita detta casa. Gli stenti, le malattie, la ricerca del cibo per nutrire la nidiata umana, il gioioso vocio della ciurma in attesa attorno al pentolone appeso alla ganascia sull’aia mentre il babbo ruotava il mestolo nella fumante polenta quotidiana. Scene di vita dei poveri contadini di un tempo che fu. Due sorelle andarono suore. Ebbi occasione di leggere alcune lettere all’amato fratello lontano. Una bellezza di sentimenti da non dire. Un fratello, il più intelligente, come usava ripetere in quel suo dialetto gutturale, aveva studiato da prete. Il verbo studiare era tutto una premessa. Sarebbe stato per tutti, il futuro prete, il sacro vangelo della famiglia. Degli altri, il silenzio della normalità: boscaioli come il babbo gli uomini; a servire i ricchi in città, il comune delle ragazze di campagna.
Lui, di abbattere piante e recidere rami nodosi, non ne volle sapere. Arrivato il momento, fece la domanda e divenne, come allora usava dirsi, questurino. Una storia né triste, né lieta. Semplicemente, una storia. La rammento ogni qualvolta accadono fatti i cui protagonisti sono questurini come lui. I tanti Bruno, Angelo, Rosario, Antonio, Gesuino, o chissà quale altro nome, che, la sera del 21 Luglio del 2001, vissero a Genova, nel quartiere di Albaro e nella caserma Bolzaneto, il momento più drammatico della loro giovane vita.
Diretti da cattivi maestri, ambiziosi ufficiali del potere repressivo, assistettero, da protagonisti, alla giornata degli orrori. La morte di Carlo Giuliani, la repressione, brutale e disumana, alla caserma di Bolzaneto, della cui vicenda è stata scritta la parola fine con la giusta condanna dei responsabili. I vandalismi in occasione dell’inaugurazione dell’Expo a Milano, il primo maggio scorso.
Un evento di portata storica: per Milano e per l’Italia. Macchiato dall’infamia di cinquecento o poco più malviventi, senza patria e onore, che hanno devastato i dintorni di piazza Cadorna nel centro della metropoli meneghina. Organizzati e ben forniti dei mezzi di distruzione, i vigliacchi con i Rolex di papà, hanno macchiato i sentimenti dei ventimila che sfilavano per dire no al pericolo di un’ Expo dell’opulenza e un si all’impegno per affrontare il dramma della fame di qualche miliardo di uomini e donne del nostro pianeta. Da una parte i tanti questurini figli del popolo. Dall’altra giovinastri mal educati, figli di una borghesia egoista e chiusa nei suoi privilegi. Non ho dubbi sulla scelta da fare. Come scrisse, Pier Paolo Pasolini, in quelle memorabili pagine settimanali sul Corriere della Sera, siamo dalla parte dei figli del popolo e della povera gente.