Un amico non è più tra noi
Un siciliano cittadino del mondo. Così lui amava definirsi ogni qualvolta ci veniva il gusto di parlare delle origini nostre.
In fondo, lui, figlio di quella terra antica in cui trovarono approdo le tante genti di un mondo antico, e chi scrive, i cui antenati partirono da Pantelleria verso l’isola sarda, per poi proseguire il cammino verso le alpi del vecchio Piemonte e della mia Valtellina, ci comportavamo da fratelli compagni. Penso ai due giovanetti dall’animo irrequieto che passano il tempo dell’infanzia a cercare il mondo aldilà dell’orizzonte a loro sconosciuto. Lui, scrutando il mistero oltre il tremolio delle onde. Io, dalla vetta amica, da cui volgevo lo sguardo oltre la bruma verso la grande pianura.
Fu, forse, per tale affinità che non trovammo mai la curiosità di approfondire il percorso della nostra gioventù quando ci incrociammo nella terra dei confederati elvetici. Non rammento il momento in cui ci siamo incontrati. È passato così tanto tempo. Sono sicuro, tuttavia, che, presentandoci, forse a una manifestazione del primo maggio, o a un incontro sindacale o politico, non ci siamo persi in inutili chiacchiericci. L’importante era il sapere ove andare. A costruire, chissà?, quei castelli di sabbia fatti di sogni per cui abbiamo dedicato tanta parte della nostra vita. Ciao, vecchio garibaldino, con quella camicia rossa che ti accompagnava sempre quasi avesse bisogno di affetto e protezione.
Ero in Vietnam, quel trentuno marzo scorso. Per un chiarimento, cercai, al telefono, un amico comune. Mi rispose da Tunisi e tutto finì lì, in attesa del nostro ritorno a Zurigo. Penso fosse a Tunisi per partecipare al convegno sindacale legato ai problemi dell’immigrazione, se non erro. E con lui, laggiù, in quella città, dai cui palazzi, se scruti con l’intensità dallo sguardo acuto, puoi scorgere il naviglio che approda alla terra dei normanni e saraceni, c’eri tu, caro Giovanni. Tu, per un ultimo viaggio in cerca dell’utopia per cui hai lottato tutta una vita. Auguri a tutti due, risposi, da un mondo che vi è caro di tanti ricordi. Sarebbe sta l’ultima occasione per scambiare un parere, un arrivederci, un saluto. Mi appare incredibile, ora, come non rimanessi sorpreso di ritrovarti a ogni appuntamento legato alla nostra attività, sindacale o politica che fosse. Che arrivassi a Zurigo, Berna, Ginevra, Basilea o Losanna che fosse, nel corso di una giornata di studio o di lotta, apparivi tu, tra la folla. In mano una bandiera, un vessillo, dei manifesti, al petto una coccarda appesa a quella camicia che era più di un dotto discorso. Che andassi al primo maggio ad ascoltare i dirigenti sindacali dei lavoratori, tra i tanti, apparivi tu.
Ciao, Giovanni. E tutto finiva lì. Il saluto e lo sguardo, i segni dell’intesa. Partecipavo, talvolta, alle giornate annuali formative organizzate dalla fondazione ECAP in centri sindacali italiani. Erano vere e proprie università estive, in cui, la fondazione, impegnata nel campo della formazione professionale, culturale e umana delle lavoratrici e dei lavoratori, forniva a tanti nostri cittadini la possibilità di studiare i problemi legati al mondo dell’emigrazione. Tu eri sempre presente, caro Giovanni.
Mi venivi incontro. Bentornato, Giovanni. Uscivo dal palazzo di Montecitorio, per un saluto ai nostri emigrati venuti quaggiù, a Roma, dinnanzi al parlamento repubblicano, a chiedere più giustizia per le pensioni e i diritti degli emigrati, e tu, eri là, in prima fila, con i tuoi stendardi e le tue bandiere. Ciao, Giovanni. Tenete duro. Mi raccomando. La sintesi di un programma giusto e ambizioso. Eri già in ospedale, colpito da quel male terribile. Eppure, trovasti il tempo di chiamarmi. Mi raccomando, Giovanni, le sue parole, che il venticinque aprile sia, come sempre, la giornata della festa e della riconquistata libertà. In quella commovente giornata, parlai come se tu fossi stato accanto a me. E, forse, era vero.
Poche settimane or sono mi recai all’ ospedale di Horgen per un saluto all’amico nell’ora difficile. Lessi nei suoi occhi la gioia di incontrarmi, accomunata, chissà?, alla tristezza dell’imminente addio. Ciao, Giovanni. Lo abbracciai e volsi lo sguardo verso l’uscio perché non apparisse il vuoto dentro le mie pupille. Ciao, Giovanni, cittadino del mondo.
Di un mondo che tu hai amato. Che avresti voluto libero dalle miserie e dalla disperazione, già condizione dei nostri avi. Ciao, Giovanni. Per te non vi sarà la notte dell’oblio. Perché, come si è soliti affermare per chi ha fatto del bene, hai lasciato un buon nome. A ringraziamento, la terra ti sarà lieve.