IL 30 agosto in marcia verso la vetta alla ricerca della memoria e della perduta gioventù
Il generale agosto è alle nostre spalle.
Ci lascia senza rimpianti. A parte il caldo torrido, senza precedenti nella storia del bel paese, interrotto, qua e là, da improvvisi e devastanti nubifragi, ci ha colpito il cinismo di tanti politicanti di fronte al dramma dei miserabili in fuga dalle guerre medio orientali e dalla devastante povertà di tante regioni africane.
Il mediterraneo si è tinto di rosso del sangue di una umanità a cui non è stato nemmeno concesso il diritto di una prece nel segno delle tante culture delle loro terre di origine. Dall’est europeo, la via terrestre della migrazione di massa, sono giunti in Austria, dalla vicina Ungheria, i tir abbandonati nelle aree di parcheggio autostradali. Il loro contenuto, una massa inerme di corpi con sulla pelle i segni di una brutalità senza fine. È già troppo tardi perché l’Europa reagisca ai crimini nel segno di quella rinnovata solidarietà civile e umana con cui seppe ricostruire i rapporti tra popoli e nazioni dopo le due devastanti guerre mondiali della prima parte del novecento. Reagire senza paura, facendo appello alle coscienze di chi – la maggioranza dell’opinione pubblica europea – non ha perso il senso della ragione, dell’esistenza e della vita.
Chi scrive, anche per sfuggire al senso di vergogna che lo attanagliava ogniqualvolta lanciava lo sguardo ai titoli mattutini della stampa scritta, se ne andato alla ricerca dei passi perduti della sua gioventù, inerpicandosi sino alla vetta del Corno Stella da cui lanciare lo sguardo sul lago e la diga del Publino e verso la grande pianura di cui intravvedi i contorni oltre le colline della bergamasca. Montagne piene di ricordi lieti e tristi. Visto il momento, prevalgono i secondi.
Da queste parti, ho perso un carissimo amico nel corso dell’alluvione valtellinese e della frana della Val Pola del 1987. Amava questa terra più di se stesso, il caro Amerino. Responsabile degli invasi artificiali in alta montagna, era salito lassù per verificarne la solidità in un momento particolarmente delicato. Precipitò a valle oltre il bordo del tornante, affrontato, temerariamente, con la Jeep di servizio. Solo, sulla vetta, ripenso alle tante sciagure, provocate, spesso, dall’azione temeraria dell’uomo.
A quel mercoledì sera 9 ottobre del 1963. Mi trovavo a Chur, la capitale del Cantone dei Grigioni e vivevo, come tutti, nelle baracche ospitanti i lavoratori addetti alla costruzione della prima superstrada grigionese che apriva il tratto veloce verso la grande Zurigo. Commentavo, con i compagni di lavoro, il risultato di un match di coppa campioni tra una squadra italiana e straniera di cui non ricordo i protagonisti. Nulla sapevamo. Eppure, e forse in quel preciso momento, un monte, il Toc, abbandonava la montagna che aveva abbracciato nel corso dei millenni per gettarsi sul lago scaturito dall’ingegno dell’uomo con la costruzione della diga del Vajont.
Milioni di metri cubi di acqua, spinti in alto all’impatto, precipitarono a valle devastando il villaggio di Longarone. Duemila morti e forse più. Di tanti scomparsi non fu possibile ricostruire generalità e origini. Già: nulla sapevamo. Capimmo al mattino seguente. Un grido. Disperato. Struggente. Disumano, persino. Un ragazzo, un giovane lavoratore venuto quassù, nella terra grigionese a costruire il suo futuro e a cui il gracchiare del transistor, come si usava all’ora, aveva trasmesso la ferale notizia. Genitori, nonni, fratelli, parenti vicini e lontani, tutti sepolti nell’ammasso di fango e detriti trasportati dalla forza selvaggia delle acque in cerca della loro libertà. Il 30 agosto del 1965, fu il ghiaccio dell’ Allalin a scatenare la ribellione della natura verso le azioni temerarie dell’uomo. Trascinò a valle le baracche ove riposavano 56 lavoratori italiani, 23 svizzeri e 9 di altre nazionalità, addetti alla costruzione della diga del lago di Mattmark. Una tragedia italiana e svizzera. Europea e del mondo come tante altre –, Marcinelle, il Vajont – su cui la giustizia scrisse, a suo tempo, pagine di vergognosa ignominia. In tutti gli eventi non morirono emigranti o locali. Perirono persone, giovani lavoratori, spesso e tante volte sfruttati nella lotta insensata dell’uomo per imprigionare la natura ai suoi insani voleri.
Di loro, un nostro commosso e perenne ricordo.