Il martedì 27 ottobre scorso la camera dei deputati ha chiuso, con una cerimonia toccante e commossa, le celebrazioni dell’anniversario della tragedia di Mattmark sulle alpi svizzere. Una delle tante catastrofi di un dopoguerra in cui, l’Italia e l’Europa, costruivano il futuro attentando, spesso, troppo spesso, ai beni della natura. Una memoria che serve di ammonimento per l’avvenire. La memoria: nostalgia e rimpianto, gioie e dolori, pezzi di vita vissuta durante i quali hai temprato il carattere e sei maturato nel corso della vita tra tanta umanità di questo nostro mondo.
La memoria di quel ventennio ( 1962 – 1982 ) vissuta nelle baracche in cui respiravi spesso l’acre odore dei panni lavati a metà, appesi ad un filo tra un lato e l’altro della stanza in cui passavi, con uno o più compagni, le giuste ore del sonno e del riposo. Già: la baracca. Lo stereotipo che la vuole triste, miserabile, mortale nella sua infinita tristezza, luogo della solitudine e della disperazione. E d’altronde, non può che apparire così a uno sguardo astratto del volgo che ti sta attorno e che ti ha visto apparire un bel giorno tra il fragore, il trambusto direi, di uomini e mezzi intenti a costruire la nuova babele. Che si tratti di scavare dei budelli dentro la montagna che separò nel tempo i viventi di una parte e l’altra del massiccio che si erge sino a sfiorare l’infinito del cielo, alzare i piloni su cui costruire i ponti per avvicinare le valli, sbarrare il passaggio delle acque costruendo quei muri di terra o cemento che hanno impedito ai torrenti di divenire fiumi lungo il percorso che li portava al loro mare: l’atto d’inizio è l’erezione della baracca in cui trovano spazio e ristoro i protagonisti della novella impresa.
La baracca, innanzitutto, con la mensa per il ristoro quotidiano. E poi l’officina, gli impianti per la trasformazione degli inerti, il materiale bituminoso, i macchinari di ogni e opportuno uso, e tanto altro ancora. La baracca, anzi, le tante baracche che hai scorto nei pressi di Altdorf, la capitale del Canton Uri su cui vigila, come un vecchio guardiano della notte, il leggendario Guglielmo Tell, o a Faido, dall’altra parte del Gottardo, dal finestrino del Cisalpino. La baracca dei miei venti anni di vita dopo la deludente, e persino drammatica, esperienza universitaria nella mia Milano. Il breve soggiorno in Francia. La Svizzera dei Grigioni, nei pressi di Chur e lassù, al culmine del passo del Lucomagno; in Vallemaggia, ove si stavano erigendo le dighe e le centrali di Robiei e del Naret; i miei anni libici: in Cirenaica, a Derna e oltre il deserto presso l’oasi di Kufra. Il ritorno in Svizzera, in quella ormai divenuta la mia seconda patria.
La baracca in cui appresi, il mattino seguente al 9 ottobre del 1963, l’immane sciagura del Vajont, la vendetta del monte Toc
sull’imperizia e l’irresponsabilità degli uomini. Longarone sepolto in un ammasso di roccia e detriti con i suoi duemila cittadini. Il grido e il rantolo di Beppe, il compagno di stanza, nell’apprendere, tra il gracchiare del transistor, di essere rimasto solo: babbo, mamma, fratelli e sorelle, l’amata su cui aveva costruito tanti suoi sogni e di cui mi faceva parte, sepolti nell’infernale pantano della valle. L’ho cercato invano e per tanti anni, povero Beppe, senza più ritrovarlo. E forse, l’eco di quel grido vaga ancora per la valle in cerca dei suoi cari. Due anni dopo, ( 1965 ) Mattmark, la vendetta del ghiacciaio a cui si era tolto il sonno tranquillo dell’eternità. La lastra che si stacca e scende all’abbraccio mortale della baracca in cui riposano un centinaio di lavoratori addetti alla costruzione dell’opera idrografica, 56 dei quali italiani, a maggioranza, bellunesi e cosentini. Tra chi ha vissuto e vive nelle baracche degli addetti alla costruzione delle grandi opere ci si conosce e si convive per anni, decenni, direi. Sempre gli stessi, in un pendolarismo senza fine tra una valle e l’altra. Le notizie, belle o brutte, tragiche o liete, corrono sul filo della comunicazione e degli incontri periodici.
Si instaura tra di loro – che si tratti di operai, tecnici, ingegneri o quant’altro – la cultura della convivenza e della solidarietà, il senso del dovere, l’orgoglio del sapere e del lavoro ben fatto. In definitiva, il soffio della vita umana ben presente negli scritti di Bertolt Brecht e Max Frisch. Una cultura di vita ben oltre le scandalose sentenze dei tribunali senza anima chiamati a definire le responsabilità di chi osò sfidare le regole del creato.