L’aumento delle truppe americane in Afghanistan da notizia ufficiosa è diventata notizia ufficiale con l’invio di 30-33 mila uomini che dovrebbero dare una spinta decisiva alla vittoria sui terroristi di Al Qaeda e sui talebani fondamentalisti.
Ovviamente, la forza per conquistare il territorio e mantenerlo non significa vincere, ma almeno è questo l’obiettivo dichiarato e perseguito dagli Usa in Afghanistan (oltre a Usa e Inghilterra ci sono una trentina di Paesi con forze ridotte o addirittura simboliche) e se la strategia del generale Stanley McChrystal (vedi foto) è quella giusta, la vittoria è a portata di mano.
Oltre, però, all’annuncio dei 30-33 mila nuovi soldati, la Casa Bianca ha dichiarato che l’esercito alleato sarà ritirato entro la fine del 2013. Insomma, c’è uno sforzo bellico notevole e, contemporaneamente, l’annuncio del ritiro. Questa seconda dichiarazione è per lo meno inconsueta perché si presta a varie letture.
La prima, ingenua da parte di chi ha fatto l’annuncio: è come se si dicesse ai terroristi e ai talebani di resistere fino a quella data con ogni mezzo e in ogni modo perché dopo il ritiro avranno campo libero.
La seconda lettura, anch’essa direttamente legata alla prima, è un’involontaria iniezione di disinteresse alla popolazione che sa che dopo il 2013 non ci sarà più nessuno a difenderla, probabilmente dai talebani ma anche dagli attuali governanti, per cui tanto vale non sperare più in niente.
Queste prime due letture, che certamente non aiutano nemmeno il morale delle truppe alleate perché sanno che in questi tre-quattro anni devono pensare solo a salvare la pelle senza quella molla potente che è il traguardo della vittoria a tutti i costi, non depongono a favore dell’amministrazione americana e dei suoi strateghi.
Ma non ci sono solo queste letture, ce ne sono anche altre, tra cui la fissazione di un termine abbastanza ampio da permettere agli alleati di dispiegare a pieno una strategia di vittoria.
C’è anche quella che contiene un messaggio per il presidente Karzai: datti da fare per eliminare la corruzione, per costruire uno Stato in grado di far fronte ai nemici interni ed esterni che altrimenti ti spazzerebbero via, per gettare le basi di un’economia nuova che punti sull’agricoltura e sull’industria e non sui traffici di droga.
Insomma, si tratta di un messaggio chiaro: o la vittoria o il fallimento. Fallimento innanzitutto per gli attuali dirigenti, anche perché la parola fallimento, in quei paraggi, vuol dire rischio di morte.
Ma si tratta anche di un messaggio che il Presidente degli Stati Uniti ha voluto lanciare al mondo dopo essere stato insignito del Premio Nobel per la Pace.
Il messaggio è questo: “Non è colpa mia se in Afghanistan c’è la guerra, non l’ho iniziata io, ma visto che c’è, a me tocca anche il dovere di pensare all’America di cui sono Presidente e gli interessi dell’America in questo momento sono rappresentati dalla vittoria e quindi da uno sforzo militare più grande”.
In questo modo Obama ha trovato una via d’uscita sia per se stesso che per l’opposizione interna che, di fronte ad una data di ritiro delle truppe, può ritenersi soddisfatta. Ciascuno ha ottenuto rassicurazioni e una mezza vittoria. L’altra parte della vittoria bisogna conquistarsela sul campo, con i risultati.
C’è infine un’altra lettura, che è quella politica di più ampio respiro e che segna la continuità (in senso buono) della politica estera americana che va da Bush a Obama.
Questa lettura è stata offerta da Lucia Annunziata su La Stampa della settimana scorsa. In sintesi la giornalista recupera Bush e la sua politica alla luce anche di quello che sta succedendo, in questo periodo, con i Paesi asiatici – Cina in testa e India – che stanno crescendo a ritmo vertiginoso e che avanzano, almeno la Cina, in molte regioni del mondo (vedi l’Africa e non solo).
La crescita dei Paesi asiatici e l’indebolimento (in senso lato ma reale) dell’Occidente, hanno spinto Bush a reagire per non perdere posizioni e nello stesso tempo per bloccare l’avanzata “imperiale” degli altri Paesi. Di qui, anche, la guerra in Iraq e quella in Afghanistan.
Ora si tratta di “finire l’opera”, anzi, finirla è diventato un “obbligo”, pena l’arretramento politico ed economico dell’Occidente di fronte ai colossi asiatici.
Ecco perché, accanto alle letture precedenti, ne esiste quest’altra, più sottile ma anche più profonda.
L’annuncio dei 30-33 mila soldati in più e contemporaneamente della data del ritiro, allora, hanno come scopo quello di accelerare la via d’uscita sì, ma nel senso di perseguire e di accelerare la vittoria.