Se pur provvisoriamente domati dopo la sconfitta del monte Graupius, i Caledoni non avevamo affatto ridotto la loro minaccia; né i romani si sentivano al sicuro della loro pressione: tanto che proprio per contenerli Adriano aveva fatto costruire il Vallum che porta il suo nome. Grazie ad esso si era giunti a una relativa tranquillità con gli abitanti locali; che però, sempre più irritati di vedere le loro profferte di compromesso respinte non avevano dismesso l’animosità contro gli invasori, e intendevano prima o poi riappropriarsi dei loro territori. I romani, del resto, in assenza di un progetto politico, che andasse oltre l’imposizione di una pace forzata, miravano essenzialmente alle risorse dell’isola; e senza considerare lo spirito di autonomia delle sue popolazioni, consideravano la Britannia una conquista da mantenere e una ricchezza da sfruttare. Così facendo, i governatori alimentavano solo il risentimento dei Caledoni, di cui non rispettavano il carattere e le tradizioni, non valorizzavano la cultura, ignoravano la lingua, e irridevano la religione. E tendevano invece a uniformare tutto con la sola persuasione delle armi, senza riuscire ad averla vinta definitivamente.
Da questo obiettivo rinnovato era poi stato indotto qualche anno dopo l’imperatore Antonino ad occupare la zona oltre il Vallo. Da dove, dopo aver distrutto i miseri villaggi, aveva deportato in Gallia i prigionieri; e poi aveva fatto costruire, ancora più a nord, un’altra linea di difesa. Più che di una barriera insuperabile, si trattava stavolta di appena un terrapieno di zolle su una base di pietre, senza torri o torrette, e costeggiato internamente da una strada di collegamento tra gli accampamenti dei presidi; ma ancora una volta senza cercare il dialogo con quegli irredenti, e disprezzandone le ragioni. Né visione più lungimirante avevano mostrato gli imperatori successivi, nel ripetere i medesimi errori. Ché mentre parlavano di pace e giustizia, di prosperità e sicurezza, miravano a imporre valori così indigesti alle tribù, che sentendosi umiliate erano spinte a trasmettere ai figli l’odio dei padri.
Tant’è che se inizialmente alcune di esse si erano lasciate riottosamente addomesticare, avevano poi ripreso a combattere contro una pace forzata; e avevano progressivamente respinto i romani fuori da quella terra di nessuno che, a parte qualche accampamento, non erano mai giunti a sedare; e dove, ormai da tempo, non osavano nemmeno più avventurarsi, ancora impressionati dalla misteriosa fine della Legio IX.
Di leggende fantastiche, alimentate dalla naturale disposizione a rendere mitici i luoghi mal conosciuti, Costantino ne aveva udite molte. Già dalle informazioni raccolte prima di partire da Nicomedia sapeva che i Caledoni abitavano quelle pianure paludose in villaggi non fortificati, dediti alla pastorizia, alla caccia, e alla raccolta di frutti. Ancora conducevano una vita rude in modeste capanne, dove mettevano le donne in comune; ed essendo adusi a saccheggi e rapine, valorizzavano la forza bruta, al punto eleggere per governanti quelli che si mostravano più arditi. In battaglia, seguivano i capi su carri di piccole dimensioni, trainati da cavalli veloci, e appoggiati da reparti di fanteria altrettanto rapidi. Privi di corazze e scudi, considerati ingombri per attraversare le paludi, oltre ad una spada appesa con un nastro ai corpi nudi, avevano per equipaggiamento un pugnale e una lancia con una mela in bronzo fissata all’estremità, col cui suono miravano a terrorizzare il nemico.
Da abili nuotatori quali erano, capaci di sopravvivere nelle paludi per giorni e giorni, con solo la testa fuor d’acqua, i Caledoni mimetizzavano i corpi nella natura circostante, e ricavavano sostentamento dalle cortecce e dalle radici degli alberi. Cingevano la gola e la vita con ornamenti di ferro, ritenuto prezioso quanto l’oro; e siccome tatuavano il corpo con disegni di varie specie animali, per non nascondere sotto i vestiti le decorazioni, andavano in giro volentieri nudi.
Già respinti da Costanzo più volte, accortisi che la sua debilitazione ne rendeva meno determinata l’azione, da qualche tempo avevano ripreso ad avvicinarsi pericolosamente ad Eburacum, malgrado la strenua difesa opposta dal generale Croco. Per questo Costantino impugnò con autorità il comando dopo la morte del padre e la propria acclamazione; e ben deciso a risolvere quella questione, non immemore della retorica di Calgacus, galvanizzò i reparti con parole ferme.
“Legionari! Non faccio vuota retorica, se dico che Roma, da tempo, ha sottomesso la Britannia con la persuasione superiore delle sue armi e della sua civiltà. Voi sapete bene quanto animo di sopportazione vi è stato necessario in questi anni contro queste popolazioni, di cui potete essere orgogliosi, e di cui, mio padre prima, e io adesso, non abbiamo mai avuto da lamentarci. Ora, però, vi chiedo un sacrificio straordinario, poiché è tempo di triplicare lo sforzo, per lo scontro decisivo che deve significare o la pace definitiva o l’abbandono dell’isola. Un’ipotesi, questa seconda, che escludo! Dopo tutto quanto vi abbiamo investito, sono fermamente intenzionato a non perdere un possesso per il quale mio padre è venuto a morire; e a meno che non muoia anche io, non intendo abbandonare la Britannia e ritirarmi da perdente. Perciò oggi chiedo a voi la massima determinazione per mettere fine a questa campagna, come avrebbe fatto mio padre, certo che obbedirete a me come foste un solo uomo, come avreste fatto con lui!”
Era la seconda volta che parlava ai soldati, e sentiva che le sue parole, di cui pur non era abbastanza soddisfatto, producevano invece una certa persuasione sui reparti, ormai pienamente fiduciosi in lui, e pertanto pronti a fargli credito. Capì che per vie oscure, e sfuggenti all’analisi dell’intelletto, quelle molteplici volontà stavano stabilendo un patto di dipendenza dalla sua, nel momento in cui si preparavano a combattere e forse a morire. Ed ebbe conferma di quanto quella misteriosa miscela circolava nelle sue vene non era solo l’effetto di una posa, ma della persuasione naturale che promanava dalla sua persona. Era un misto di consapevolezza, audacia, sfrontatezza, cinismo, persino di disprezzo per vita, a generare quel magnetismo che emanava fin da piccolo, il marchio del genio che si manifestava da sé, e annunciava a chiunque, a pelle, che lui era il migliore, e che al suo volere non si poteva resistere.
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