Ero appena tornato dalla Libia del colonnello Gheddafi. Avremmo assistito, in diretta, mesi dopo, all’espulsione di tante migliaia di cittadini italo- libici. I protagonisti, nei decenni precedenti, dello sviluppo agricolo della Tripolitania e della Cirenaica. Noi costruivamo, per il regime libico, le autostrade e i ponti per contribuire al suo sviluppo economico e sociale.
Il colonnello, memore dell’occupazione monarchico- fascista del primo novecento, allontanava dalla Libia gli emigrati italiani: poveri contadini veneti o laziali, inviati laggiù alla ricerca di una nuova terra sulla quale costruire il loro avvenire. Gli innocenti pagarono così, a posteriori, le infamie perpetrate dalla soldataglia fascista nei bui anni dell’avventura totalitaria aldilà del mediterraneo. Ero, finalmente, ritornato in Europa. La Svizzera sarebbe divenuta, per decenni, il luogo delle mie più importanti esperienze professionali e politiche. Il primo impatto fu, tuttavia, contrassegnato da fatti e avvenimenti che mettevano in pericolo la permanenza di migliaia di nostri connazionali in terra elvetica.
James Schwarzenbach, un politico svizzero di estrema destra, aveva lanciato l’iniziativa contro l’inforestierimento, sottoposta al giudizio referendario del popolo nel giugno del 1970. In caso di successo, (stranieri non oltre il 10% della popolazione svizzera) trecento mila lavoratrici e lavoratori stranieri, in maggioranza italiani, avrebbero dovuto abbandonare il territorio svizzero e rientrare in patria. Il concetto era chiaro, espresso nella storica frase di Max Frisch. Siete braccia di lavoro e nulla più. Rimarrete sino a quando servirà al progresso delle attività agricole e industriali della Svizzera moderna.
La teoria della separatezza, già conosciuta dai nostri connazionali negli anni in cui i lavoratori italiani diedero l’ultima stilla di sudore, talvolta l’estremo sacrificio, nella costruzione dei grandi trafori alpini del Gottardo e del Loetschberg. Nelle saline marsigliesi o nelle terre della Vallonìa. Nell’arco di due secoli, oltre alle due terribili guerre mondiali, la storia del nostro popolo ha vissuto l’esperienza xenofoba e razzista. Schwarzenbach e xenofobia, sinonimi perfetti di una era ancora presente alla nostra memoria. La mobilitazione della comunità italiana, accanto alla parte più solidale dell’opinione pubblica svizzera, rappresentò una delle pagine più memorabili della storia italiana in terra elvetica.
Nelle case del popolo – Volkshaus e Maison du peuple – e nelle Case d’Italia – Ginevra, Losanna, Berna, Lucerna e Zurigo – si tennero le storiche assemblee contrassegnate da straordinarie partecipazioni di popolo italiano e svizzero e in cui si distinse un giornalista e dirigente socialista ticinese, Dario Robbiani, che fu poi, nei decenni successivi, punto di riferimento della comunità nazionale, accanto al capo sindacalista, Ezio Canonica. Ambedue scomparsi, serbiamo di loro il ricordo dei giusti. Schwarzenbach fu sconfitto dal suo popolo e nulla fu più come prima. La Casa d’Italia di Zurigo, da allora, divenne luogo della memoria e dei processi culturali e integrativi dell’emigrazione italiana. All’inizio del nuovo secolo sembrò attenuarsi la spinta aggregativa del luogo e ciò mi portò, nel gennaio del 2009, ad interrogare l’allora ministro degli esteri sul perché dello stato di abbandono della Casa d’Italia e sul mancato intervento delle istituzioni italiane.
La risposta fu deludente. Tuttavia, qualcosa accadde. Furono attuati miglioramenti essenziali della struttura e sotto la guida del comitato pro Casa d’Italia, la struttura riprese a nuova vita. È, oggi, centro formativo e culturale di primo livello: scuola elementare statale, media e liceo aperti anche ai figli di ogni provenienza nel solco della solidarietà e dell’incontro. Centro di manifestazioni associative e democratiche. Voci, incontrollate, parlano della possibile vendita dell’immobile come è già avvenuto per altre strutture italiane nella confederazione Elvetica.
Se ciò avvenisse, non sarebbe che l’ultimo anello di un processo politico teso a tagliare le radici, i fili del collegamento tra la collettività italiana e l’Italia dei padri.