È uscito “Black Cat”, l’album più nero di Zucchero. Caratterizzato dalle atmosfere afroamericane e realizzato con uno spirito assolutamente libero, l’ultimo lavoro discografico di Sugar è un successo. Appena entrato nella classifica degli album più venduti in Svizzera, Black Cat è già il numero 1!
Qual è lo spirito con cui hai scritto i brani di ‘Black Cat’?
L’ho scritto dopo una tournée di 38 concerti fatta nel sud degli Stati Uniti, soffermandomi così un po’ di più nella terra da cui sempre attingo per la mia musica.
Mi sono impregnato di musica, di colori, di paesaggi, di storia e quando sono tornato a casa ho pensato alle immagini del film “12 anni schiavo”, de “Il colore viola”, di “Django” di Tarantino e degli schiavi delle piantagioni che cantavano. Il rumore delle catene, così come il ritmo delle mani, i bidoni che facevano da percussioni e le chitarre rudimentali fatte con i colli di bottiglia mi hanno ispirato i suoni nelle canzoni. Ho pensato a queste immagini e a questi suoni.
Adesso è vero che non ci sono più questi schiavi, ma ci sono i nuovi schiavi, ci sono ancora i padroni, i Paesi con dittature, l’esodo della gente che soffre e che scappa dalle guerre.
Hai affermato che questo disco ha un’anima anarchica. Cosa vuol dire oggi riuscire a fare un disco del genere?
Perché non segue delle regole precise. Il suono è volutamente molto più ruvido, più selvatico. Rispetto agli altri è più marcio, poco raffinato è quindi molto più libero. Libero perché mi sono detto che a 60 anni non mi va più di stare dietro alle radio e a cosa va di moda: ho voluto essere me stesso ma rinnovandomi, che non è una cosa così facile. Mi sono ricordato dei primi tempi quando ho scritto “Blue’s” e “Oro Incenso & Birra”: ero così libero, più istintivo, forse perché non avevo molto da perdere.
Il titolo, ‘Black Cat’ richiama al simbolismo positivo del gatto per gli afroamericani che è lontano dalla nostra tradizionale concezione del gatto nero. Come mai questo bisogno di guardare così lontano?
Non ho pensato al gatto nero che attraversa la strada, mi piaceva il titolo, il suono e la parola Black. Tra di loro, soprattutto in quel di New Orleans, si salutano con “Hey black cat”, poi ci sono molti padri del blues come Muddy Waters e Robert Johnson che citano sempre questo “black cat bone” (l’osso del gatto nero) che tengono in tasca perché gli porta bene. È sempre il contrario della nostra tradizione, il gatto nero è indice di buon auspicio.
Se devi dare un titolo ad un album ci deve anche essere sinergia. Questo per me è un album nero, da “Black Cat”: infatti anche “Partigiano Reggiano”, il primo brano dell’album, inizia con “Black cat my bone”.
Poi il gatto è anche l’animale più libero, più indipendente, anarchico, selvatico…. mi sembrava che racchiudesse un po’ tutte queste caratteristiche che sono nell’album.
L’album si compone di 12 brani, scelti su 40 scritti in un anno. Cosa caratterizza quelli selezionati?
Quaranta scritti tutti a casa mia e provinati. Poi però uno perché aveva la stessa atmosfera di un altro, uno perché aveva qualcosa che non mi convinceva, altri perché il testo non era perfetto sono stati messi di lato. Non è che li butto via ma non puoi fare un album di 40 brani! Poi ne ho dati 7 ad ogni produttore che come sapete sono tre. Ne abbiamo realizzati 21 ma ne abbiamo scelti 12 che sono quelli che hanno un denominatore comune visto che io ho ancora l’idea dell’album concept.
Questo album è fatto così. Io non ho mai fatto un album uguale a quello precedente: ok avere lo stesso stile, siamo d’accordo, ma poi ci vuole anche un po’ di ricerca, rinnovarsi.
Hai affermato di volerti sentire libero nella composizione di questo album? Negli album precedenti da cosa ti sei sentito frenato?
Sono sempre stato libero: non ho mai dovuto far sentire le mie canzoni alla casa discografica per dover dire questo va bene o no. È inevitabile che quando inizi ad avere successo, vendere tanti dischi, girare il mondo, fare concerti, sei contaminato da tante cose, dalla musica che senti, da quello che sta funzionando.
Ci può essere anche la paura di fare un album fuori dai format del momento, magari nella scelta dei brani da inserire nell’album ero più proiettato per quelli che potevano essere più suonati in radio. Che poi è andata anche bene: per esempio “Baila” non doveva andare nell’album e invece poi ha funzionato, come “Per colpa di chi”.
Questa volta invece non ho proprio pensato a queste cose, è stato un album di piacere per me con la consapevolezza che osare poteva anche essere rischioso, poteva non piacere. Per ora sta andando bene, è il numero 1 in Italia e anche qua. La critica ne ha parlato bene ma magari non andrà come gli altri, non si sa.
Insieme a 12 brani inediti, solo uno (Streets of surrender (S.O.S)) è scritta da Bono. Come mai questa scelta?
Gli ho portato la musica quando è venuto in tournée a Torino e gli ho chiesto di scrivergli un testo chiedendogli di mantenere la parola “surrender”.
Mi ha scritto dopo un mese che era a Parigi, subito dopo gli attentati quando c’era questa atmosfera così incredibile, brutta e pesante che gli ha ispirato un testo. Ha scritto questa bellissima canzone-poesia che si chiama “Streets of surrender (S.O.S)”. Nello stesso tempo io parlo di mancanza di libertà e di esodo e i temi si riallacciano.
Cosa vuoi che arrivi al tuo pubblico con questo album?
Vorrei che arrivassero emozioni e colori forti così come forti sono le tinte dell’album: c’è divertimento, malinconia, allegria e tristezza….come è un po’ il blues. Che servisse quanto meno a far passare un viaggio in macchina, avvolti da un mondo bello ed armonioso. A me personalmente questo album piace altrimenti non lo avrei tirato neanche fuori e vorrei che desse delle sensazione belle, di armonia.
Hai alle spalle una carriera di grande successo. Oltre alla notorietà, che cosa ti ha dato la musica?
Se suono non ho mai mal di testa (ride)! Mi dà adrenalina ed è terapeutico, … difficilmente in tour ho mai cancellato un concerto. Ho cancellato una sola data qui a Zurigo per un’indigestione: la sera prima il principe Emanuele Filiberto ha insistito che andassi a mangiare la raclette a Ginevra ma non mi ha detto che non dovevo berci la birra sopra. Mi ha fatto un mattone così e non riuscivo a digerirla, non lo farò mai più!
La musica mi ha salvato da certi periodi: subito dopo la separazione ero depresso e se non mi buttavo sulla musica ero messo male. La musica è stata anche la mia risposta ai detrattori che hai quando inizi a fare il musicista e tutti ti dicono che non ce la farai mai, è stata una rivincita!
Eveline Bentivegna