I partiti sono decisamente alle prese con le scelte dei candidati alle prossime elezioni regionali e soprattutto con i problemi che le candidature stesse stanno creando all’interno di ciascuno schieramento.
Il dialogo tra la maggioranza e le opposizioni (Pd e Udc e Api) non sta facendo passi indietro, è congelato fino al dopo elezioni.
Il governo, fatta marcia indietro rispetto al taglio delle tasse (“ora i conti non lo permettono”) annunciato una settimana prima, ha messo in calendario sia il provvedimento sul “legittimo impedimento”, presentato anche dall’Udc, sia il processo breve, ma ha rinunciato al decreto legge, e questo è stato apprezzato dal capo dello Stato perché è segno che c’è volontà di dialogo.
Come abbiamo avuto modo di dire, le opposizioni daranno battaglia ma senza forzare, anche perché così avranno materiale di polemica in campagna elettorale e dopo le elezioni il terreno del dialogo sarà libero da tanti ostacoli. D’altra parte, lo stesso governo sembra essere deciso a considerare il processo breve come un provvedimento di civiltà giuridica e non più come alibi per mettere il premier al riparo dai processi a suo carico e dagli attacchi della magistratura.
Così posto, il “processo breve” risponde ad un’esigenza largamente sentita nell’opinione pubblica. L’ultimo esempio è dato dall’assoluzione definitiva dell’ex ministro Calogero Mannino dopo ben sedici anni. Se un cittadino deve aspettare tanto per essere condannato o per essere giudicato innocente, vuol dire che qualcosa non funziona nella giustizia.
Ciò detto, passiamo ai guai interni dei due grandi schieramenti. Venerdì 15 si è avuto finalmente il faccia a faccia tra Berlusconi e Fini, i due fondatori del Pdl che da qualche mese praticamente sono divisi su vari temi e su una diversa concezione di fare politica. I due, in sostanza, hanno firmato un armistizio per non offrire materia di divisione in campagna elettorale. Fini ha ottenuto da Berlusconi maggiore collegialità nelle decisioni con una consultazione settimanale direttamente tra loro due o per interposta persona (il coordinatore del Pdl Ignazio La Russa).
Inoltre, garantisce il suo sostegno sui provvedimenti che riguardano la giustizia e lo scudo per il premier ed entrambi criticano la politica dei due forni di Casini che a livello locale si allea ora con il Pdl ora con il Pd a seconda delle convenienze.
In sostanza, il Pdl vorrebbe che l’Udc facesse una scelta di campo e ritornasse con il centrodestra, ma Casini non è d’accordo. Fino a quando gli spazi di manovra glielo consentiranno, in alcune regioni si alleerà con il Pdl, ad esempio nel Lazio, in Veneto e probabilmente in Campania, in altre con il Pd.
Casini motiva le sue scelte dicendo che non si tratta di un’alleanza a livello nazionale, ma di scelte locali, fatte in base al candidato. Il che gli fa dire che in Piemonte e in Veneto non gli piacciono i candidati leghisti, cioè candidati di un partito estremista su alcuni temi come l’immigrazione, e che nel Lazio non può votare una candidata come Emma Bonino, “degna persona” ma distante dalle posizioni cattoliche. Dicevamo che le scelte di Casini, dal Pdl bollate come “vecchio metodo” di far politica in quanto legato ad interessi di potere, hanno senso se i risultati saranno positivi, altrimenti vorrà dire che avranno ragione gli avversari a rinfacciargli l’opportunismo politico ed elettorale.
Il Pdl ha già scelto due candidati leghisti in Piemonte e in Veneto, suscitando il “rammarico” di Galan, governatore uscente e sicuro di rivincere. È lo scotto che il Pdl deve pagare a Bossi per la sua fedeltà all’alleanza. Nel Lazio la scelta di Polverini, ex sindacalista dell’Ugl e apprezzata anche da alcuni esponenti del centrosinistra, ha l’aria di essere vincente, non solo per l’appoggio di Casini, ma anche per il naufragio della giunta di centrosinistra in seguito alla vicenda Marrazzo.
Per il resto, in Puglia il Pdl ha vari candidati, ma ancora non è stato scelto quello definitivo.
La politica delle alleanze di Casini sta suscitando confusione e polemiche soprattutto all’interno del Pd. Pier Luigi Bersani, spalleggiato da D’Alema, vorrebbe rendere generalizzata a livello nazionale l’alleanza con Casini, il quale da una parte rifiuta, per il momento, in quanto sa che il suo elettorato non glielo perdonerebbe, dall’altra, come accade in Calabria, cerca di trarre il maggior vantaggio costringendo il Pd ad appoggiare un candidato dell’Udc. In Puglia si stanno combattendo Boccia e Vendola.
Casini, che odia le primarie, ha acconsentito a che ci siano per dare una mano a Boccia, ma nel caso in cui dovesse vincere Vendola, probabilmente si defilerà appoggiando un candidato del Pdl, specie se si tratterà di Adriana Poli Bortone.
Come si vede, i giochi si stanno facendo complessi anche perché non tutti nel Pd sono favorevoli a Casini, non tanto perché rifiutano di allearsi con l’Udc, quanto perché sanno che Casini, come non è stato disposto a fare da gregario a Berlusconi, così non sarà disposto a fare l’alleato docile con il Pd. Intanto, in questo partito, è scoppiata la grana Bonino, candidata dapprima dei radicali alla Regione Lazio e poi accettata nei giorni scorsi come candidata del centrosinistra. Se però Bersani scommette sulla Bonino, non sono dello stesso avviso vari esponenti cattolici come Binetti, Carra, Lusetti e Mosella. Questi ultimi tre hanno deciso di uscire dal Pd e di aderire all’Udc di Casini, Binetti è ancora incerta, vuole sapere se il caso Bonino resterà isolato o se è il segnale di una prospettiva, nel qual caso anche lei ha già dichiarato che non la voterà e che se dovesse vincere lei se ne andrà il giorno dopo. Dovrà solo decidere dove: se con Casini o con Rutelli.
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