La terza vita del montanaro, ritornato, indenne, dai campi dell’orrore. La Zurigo dal cuore di pietra. Il villaggio di Niederglatt ove abitava un suo lontano parente che li ospitò – il ragazzo, la sposa e l’infante, nato dall’amore scoppiato all’ombra dei tini riempiti di grappoli dal succo di bacco in quella lontana giornata ottobrina- in una casetta di legno in cui si sistemarono tutti, salvo il poverello, il bimbo a cui fu proibito persino un accenno a voler giocherellare nel campo vicino, assistendo al decollo e all’atterraggio dei mostri rombanti dalla pista di Kloten, giganti d’acciaio a lui sconosciuti, nei primi suoi anni nella valle natia.
Fu assunto nella vicina fonderia, l’ormai maturo ragazzo della mia Valtellina.
E non gli sembrava vero di aggredire la cocente fornace mentre eruttava le linfe infuocate, come usava fare in gioventù, lassù, sul costone battuto dai cervi, nel trascinare a valle quel che restava del grande abete per produrre calore nelle infinite notti invernali.
Era bravo, e tanto serviva a chi era addetto al controllo.
Talmente bravo, da mettersi a disposizioni per ogni evenienza. Accadde che l‘invitto operaio venisse colpito da una lingua di fuoco sfuggita alla tempra. Se la cavò, tuttavia. E tutto, per anni e decenni, continuò come prima. La compagna, non è che restasse rinchiusa a curare il fanciullo. Trovò il da farsi, avvolgendo delle strane rocchette- così raccontava – un tanto per pezzo, sino a quando la mano, intorpidita, mollava la presa ed ella si assopiva per il breve riposo.
Per il piccolo era già tanto poter sgambettare di qua e di là. Che non si permettesse d’affacciarsi alla finestra, quando udiva il cicalio dei ragazzi sull’uscio delle casette vicine.
Il tugurio addetto ai bisogni, col filo di acqua che usciva dal tubo arrugginito dall’incuria, non é che permettesse un granché. Pazienza!
Al piccolo, se la madre si allontanava, gli era indicato uno strano pitale per ogni e qualsiasi bisogno. Una domenica pomeriggio, Il babbo, impietosito da tanto squallore, lo portò seco in gita in città sulla canna di una vecchia bici militare.
Al ritorno, nelle prime ombre della sera, si arrestò all’alt di un poliziotto. È la fine, pensò il genitore.
Balbettò qualcosa nel dialetto della sua Valtellina.
E il poliziotto, raggiante, rispose: Puschlav ! (Poschiavo) Puschlav! Poté continuare.
Eternamente nascosto e nell’ombra, il fanciullo, sino a quando, alcuni anni dopo, non scadde il divieto di riunire la famiglia.
La storia dei “Bambini proibiti”, magistralmente descritta da Marina Frigerio
Nel frattempo, oramai grandicello, era giunto per il giovane il grande momento: la scuola.
Un inferno. Compagni di classe di cui non capiva – che dico!- una sola parola.
E allora, diveniva aggressivo. Rompeva e frantumava ogni cosa. Picchiava chiunque gli si parasse davanti, tanto che, i genitori, furono convocati più volte per rendere conto. Anche di quegli oscuri ghirigori: fogli bianchi macchiati di nero. I palazzi, le case, le piante, il monte, il sole, la folla: il tutto, uno schizzo di nero. Finì male. Ormai diciottenne, fu arrestato più volte in possesso della polvere bianca. Venne espulso. In Italia suo malgrado, da novello straniero, andò ad abitare dai parenti di mamma, accanto alla grande casa di famiglia che i suoi genitori avevano costruito, un poco alla volta, grazie ai risparmi del duro lavoro Svizzera. Una casa per una serena vecchiaia e per – nel frattempo era nata una bimba- i loro due figli.
Nemmeno il ritorno dei genitori fu lieto.
Di fatto anticipato da un grave incidente del padre in fonderia tale da costringerlo all’invalidità permanente.
Si installarono, i due, oramai anziani, al castello dei sogni, ( la nuova casa di famiglia) attendendo il ritorno del ragazzo sperduto nelle patrie galere.
Il vecchio morì poco dopo: a causa degli stenti passati e del triste languore.
Dei figli, non voglio parlare.
La madre vive sola in quella grande casa, amorevolmente assistita da una badante ucraina.
Novantacinque anni perduti nell’immensità del nulla.
A chi gli fa visita, racconta di storie antiche.
Di quel giovane ardito al quale porse, osservando il suo volto, il grappolo d’uva, raccogliendo un sorriso d’intesa.
Lei più non sa che il suo uomo riposa un poco più sotto, laggiù, al luogo santo del villaggio tellino.
Se passi a salutarlo e a rendergli omaggio, sulla stele vedi impressa una foto: l’accenno di un sorriso, talmente sofferto, che sa di tristezza infinita. Ha vissuto due volte da eroe. Non è scritto.
Mai nessuno saprà.
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