Il film sul musicista Django Reinhardt apre la 67a edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino
L’impegno politico, da sempre tratto distintivo del Festival del Cinema di Berlino, passa quest’anno attraverso la proiezione del film di apertura, Django, la storia vera del jazzista francese di origine sinti, Django Reinhardt, costretto a sfuggire alle persecuzioni naziste. Completamente assorto nella sua musica, il chitarrista geniale sente alla fine quasi il dovere di mettere in salvo il suo talento e scappa dalla Parigi che lo idolatrava come re dello swing verso la Svizzera. Sullo sfondo l’esodo dei gitani, perseguitati dal regime di Adolf Hitler. La pellicola, esordio del produttore Etienne Comar, non si esaurisce in una semplice biografia del celebre artista costretto a cercare asilo in Svizzera, ma lascia posto a temi più attuali, dal dramma dei rifugiati alla libertà dell’espressione artistica, dallo spettro delle pulizie etniche alle responsabilità della politica.
Tra accurata ricostruzione storica e fiction, il regista Etienne Comar affronta il rapporto poco noto tra il grande artista della musica contemporanea e il suo popolo nel momento in cui il potere cerca di farselo alleato. Raccontando i due anni cruciali della vita del musicista già evocato da Woody Allen in ‘Accordi e Disaccordi’, il regista fa un’ampia panoramica sul potere sovversivo della musica, sul ruolo e le responsabilità degli artisti in tempi politicamente turbolenti, tessendo una riflessione politica, mai attuale come in questi tempi, su barriere e confini, minoranze, discriminazioni, persecuzioni: questo ha reso il film perfetto per aprire un Festival come quello di Berlino che a questi temi riserva sempre molta attenzione.
La musica, fondamentale strumento di comunicazione di culture e saperi, osteggiata da molti regimi totalitari, diventa qui il simbolo della libertà negata. “Non volevo fare un classico biopic, piuttosto mostrare in quale maniera un artista può conservare la sua libertà e la sua capacità di astrarsi, anche quando la situazione che lo circonda sembra impedirglielo in ogni modo. Volevo ritrarre un musicista all’interno di un complesso periodo storico, solo poi ho realizzato i tanti parallelismi con la situazione dei rifugiati oggi, nel modo in cui a masse di persone viene impedito di viaggiare. La musica nei momenti storici più cupi è un baluardo di libertà perché le arti sono le prime cose sotto attacco nei regimi. Non è un segreto che la propaganda nazista tentava di imporre regole al jazz proprio perché miscuglio di culture differenti.
Conosco bene la musica di Reinhardt, mio padre era un grande appassionato della sua musica, mi parlava spesso di questo genio del swing, mi faceva ascoltare i suoi dischi, e anche io faccio musica. In quel periodo il jazz, in Europa e anche in Germania, era molto popolare, ma i nazisti la consideravano una musica degenerata, ispirata dalla gente di colore, e per questo, da una parte la rifiutavano, ma, dall’altra, ne erano attratti.
Per i gitani, le note sono l’essenza stessa della vita. Studiando quella di Django Reinhardt mi sono accorto che questo episodio era perfetto per affrontare i temi che mi stavano a cuore, raccontare il potere rivoluzionario della musica e i tormenti di un artista costretto a esibirsi in un’epoca molto turbolenta. Questioni cruciali che non ci abbandonano neppure oggi”, ha commentato il regista.
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foto: Ansa