Una sentenza della Cassazione potrebbe cancellare centinaia di processi per mafia, costretti a ripartire da zero. I dibattimenti in corso in tribunale dovrebbero infatti ricominciare davanti alla Corte d’assise, competente per i reati puniti con una pena non inferiore ai 24 anni.
La decisione scatena le reazioni di pm, avvocati e politici, ma anche l’intervento immediato del ministro della Giustizia, Angelino Alfano, il quale annuncia che si correrà ai ripari. “Faremo di tutto per evitare che ci possano essere conseguenze negative – assicura il Guardasigilli intervenendo a un convegno a Palermo – e che si possa creare un grande paradosso: e, cioè, che dall’inasprimento delle pene per il reato di associazione mafiosa possano derivare benefici per i boss”.
A stravolgere la normale routine dei tribunali italiani è il pronunciamento, emesso dalla prima sezione penale della Suprema Corte il 21 gennaio scorso – del quale finora è noto solo il dispositivo e non ancora la motivazione – che riguarda un processo celebrato a Catania contro Attilio Amante e altri otto imputati, in cui si erano dichiarati incompetenti sia il Tribunale, con un’ordinanza del 7 maggio 2009, che la Corte d’assise, con un’altra ordinanza del 12 ottobre. Il primo riteneva che la coptenza appartenesse alla Corte d’Assise, quest’ultima che il processo dovesse svolgersi in tribunale.
Due settimane fa la Cassazione ha risolto il conflitto, decidendo che il processo dovrà farsi in Corte d’assise. Ma i dibattimenti “a rischio” sarebbero centinaia: dai procedimenti a carico dei boss Salvatore e Sandro Lo Piccolo, che hanno avuto 30 anni in uno dei dibattimenti del filone “Addiopizzo”, al processo Gotha nel quale il boss Nino Rotolo è stato recentemente condannato a 29 anni, da quello al clan di Borgetto al processo in cui sono imputati i fratelli Madonia. Ma potrebbero ricominciare daccapo anche i processi già chiusi in appello con sentenze che non siano ancora definitive.
Paradossalmente, a scatenare l’emergenza è stata una norma antimafia contenuta nella cosiddetta legge ‘ex Cirielli’ del 2005 che ha aumentato fino a 24 anni la pena edittale per il coloro che promuovono, dirigono o organizzano l’associazione mafiosa.
Secondo i tecnici del Ministero della Giustizia, tuttavia, gli effetti sui processi in corso dovrebbero essere limitati solo a quelli dinanzi ai Tribunali in primo grado: i processi arrivati oltre le formalità di apertura del dibattimento andrebbero avanti senza problemi mentre a rischiare dovrebbero essere quelli per i quali i difensori abbiano tempestivamente eccepito una questione di nullità.
La questione, sollevata anche da numerosi pm antimafia, sarà affrontata lunedì 15 febbraio dalla Dda di Palermo, presieduta da Francesco Messineo. Per il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, va profilandosi “una catastrofe, dai potenziali effetti devastanti”. “Per rimediare – spiega – occorrerà un immediato intervento del legislatore.
Non conosciamo ancora la motivazione della sentenza, ma il dispositivo è già abbastanza chiaro. Questo è il risultato dell’approssimazione con cui si fanno le leggi in tema di mafia. Sono gli effetti di una legislazione che va avanti a strappi, in modo schizofrenico e disorganico”.
Un’analisi analoga viene anche dagli ambienti della Cassazione: “C’è un buco nella legge, c’è un problema normativo: serve una correzione”, è il commento che trapela. La decisione della Suprema Corte lascia sgomenti anche gli avvocati.
Anche il mondo politico lancia l’allarme. “Bisogna che il governo intervenga immediatamente con un provvedimento d’urgenza per ristabilire certezza normativa sulla competenza dei tribunali” afferma il segretario del Pd Pierluigi Bersani. Gli fanno eco altri esponenti del Pd, da Giuseppe Lumia ad Anna Finocchiaro, ma anche del Pdl, come Carlo Vizzini, che si dice “certo dell’impegno di Alfano a tenere alta la guardia contro la mafia”. Stempera le polemiche il procuratore di Palermo, Francesco Messineo.
“Le situazioni – spiega – vanno esaminate caso per caso, ma non dovrebbero determinare scarcerazioni perché i termini di fase ridecorrono con l’annullamento del decreto che dispone il giudizio”.