L’Italia alla ricerca del tempo perduto
Meglio sarebbe spegnere quel maledetto mostro audiovisivo e andarsene via per pinete e pascoli dipinti del verde della primavera. Parlare al saggio contadino che incontro ogni inverno mentre mi cimento nell’ascesa ai mille cento metri del monte Etzel. Arranco come chi passa le sue giornate seduto allo scanno del parlamento repubblicano. E lui sta scendendo verso la magione per accudire agli impegni quotidiani: il foraggio per il bestiame, la mungitura, la pulizia della stalla, la preparazione dell’androne ove riposerà il vitello appena nato.
E invece, io sono lì, impietrito alla vista delle scie di fuoco che calano su Damasco, la metropoli che ha conosciuto in questi ultimi dieci anni la tragedia del male assoluto.
La brutale repressione del dittatore Assad, la barbarie dell’Isis, il terrorismo jihadista, il ritorno imperiale della nuova Russia di Putin, e, per ultimo, i bombardamenti “intelligenti!” di Trump con la collaborazione dei monelli europei che giocano alla guerra così per darsi un tono: il falso europeista Emmanuel Macron e la povera Albione, detta Theresa May, a cui non sembra vero di poter nascondere il miserabile fallimento di una politica solitaria imperiale con la storia delle spie avvelenate e con qualche sottomarino in viaggio premio verso le coste della Siria.
‘Europa, dove sei?’ direbbe l’americano alemanno Henry Kissinger, intento a consultare l’agenda priva del prefisso.
Il problema è che, da allora, quaranta anni o giù di lì, nulla di rilevante è cambiato nel vecchio continente.
L’Inghilterra e la sua politica vittoriana, la Francia dei presidenti stile Luigi quattordicesimo, detto il re sole, la Germania assonnata nel pessimismo romantico del suo popolo per poi svegliarsi e macchiarsi di immani tragedie, oggi, e per nostra fortuna, gigante economico e nano politico. Rimarrebbe l’Italia. Talvolta mi viene il dubbio che siamo rimasti a “Francia o Spagna purché si magna”.
Osservo la liturgia delle consultazioni quirinalizie. Le dichiarazioni all’uscita degli studi del presidente Mattarella. E non posso che essere pervaso da un sentimento di pietas. Non per i protagonisti, naturalmente: per la sorte dell’Italia.
Il nuovo statista, Matteo Salvini, legge il brogliaccio inciampando qua e là su verbi e sostantivi, mentre il drago Berlusconi mima il suo dire come la maestrina con lo scolaro sfaticato e zoticone.
Mi ha ricordato i fratelli De Rege di Walter Chiari e Carlo Campanini, lo sketch che allietò le serate del popolo in poltrona degli anni sessanta.
Vieni avanti, cretino! Perché il popolo possa ridere.
Prima di piangere sul latte versato (i voti) a questi miserevoli personaggi della nuova politica italiana.
Del novello Valentino, al secolo, Luigi Di Maio, nulla da eccepire.
La cura al particolare. Il viso curato da qualche magica mistura.
Il capello impomatato. L’eleganza di un abito Versace o Cristian Dior, e quel solito foglietto ormai ingiallito. Lo noti da qualche pausa del suo raccontare trite noterelle all’inclita ed al volgo.
Degli altri, che dire? Nulla, se non per Maurizio Martina, il reggente del mio partito dal viso perennemente triste per l’immane difficoltà del compito.
Per dire le cose appropriate, bastano, d’altronde, i due Presidenti, l’emerito e l’attuale, Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella, nella speranza che qualcuno li ascolti.
Che abbiamo fatto di male perché il popolo decidesse di consegnare il suo destino a comprimari da operetta da due soldi?
Eppure qualche spiegazione c’è.
La crisi del partito democratico.
L’aver smarrito ogni spirito di appartenenza a una comunità di liberi e solidali. L’esplosione delle gelosie. L’emergere dei clan per sconfiggere il presunto avversario all’interno dello stesso partito. L’estinzione della battaglia delle idee.
Ho combattuto e vinto la sfida per la salvaguardia della “Casa d’Italia” di Zurigo come bene pubblico della comunità italiana. Una vetrina della repubblica nella città sulla Limmat.
Il Titanic democratico sta affondando, aiutiamolo a posarsi sul fondo degli abissi. Con un mare di preferenze a due pur lodevoli sconosciuti venuti da lontano, nonché al protetto locale con cui tessere la tela dei loro interessi.
Non pensino di essersi liberati di me, pur se solo e sconfitto.
Sarò in campo. E sino a quando il PD ritornerà a rappresentare la voce del popolo che gli affidò le tante aspirazioni e speranze deluse.