Tra un mercatino e un panettone, vorrei parlarvi dello Stato democratico di diritto
seguendo gli andamenti attuali che forse non è, come molti ritengono, una conquista irreversibile, ma una parentesi storica. Esso nasce infatti da un compromesso tra le forze materiali del capitalismo industriale e le organizzazioni politiche del mondo del lavoro, su cui esso si fonda e viene chiamato «Stato liberal-democratico». Il liberalismo, ideologia capitalistica, fondata sul primato della libertà di iniziativa individuale e che mira a sottomettere le sovranità degli stati, e dall’altra la democrazia, che sottolinea il valore prioritario dell’uguaglianza dei risultati da conseguirsi mediante l’ingresso dei cittadini nello Stato, e la loro partecipazione alle decisioni politiche.
Sembra che nessuno delle due ideologie possa esistere senza l’altra. Una soluzione di compromesso, è l’«economia sociale di mercato», che costituisce una via di mezzo tra l’economia di mercato liberista e l’economia pianificata comunista. Nel 1948 con l’art. 3 della costituzione italiana si tentò di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza, impedivano l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori alla vita politica, economica e sociale del Paese. Si trattava di rimuovere le storiche disuguaglianze sociali definite da Leonardo Sciascia «una storia di servi e di padroni». Emerge così uno strato intermedio, pari al 40% della popolazione che possiede il 30% della ricchezza, e grazie al più forte partito comunista occidentale, fa nascere una nuova classe media proprietaria, determinando così il progressivo allargamento del mercato.
Alla fine degli anni ’70, i rapporti di forza negli USA iniziano a modificarsi a favore del capitale.Con le politiche neoliberiste inaugurate dalla Thatcher in Inghilterra e da Reagan negli USA, paese nel quale, alla metà degli anni Ottanta, l’aliquota delle tasse per i più ricchi scende dal cinquanta per cento al ventotto per cento, oltre la privatizzazione della sanità pubblica, che pone fine alla democrazia sanitaria, ma avvia un processo di trasferimento di quote significative di reddito nazionale dal lavoro al capitale delle grandi compagnie assicurative e delle altre corporation protagoniste e beneficiarie delle privatizzazioni.
Mentre la produttività aumenta dell’80%, la retribuzione mediana cresce solo dell’11%, la quota di reddito dei profitti di impresa raggiunge picchi mai raggiunti sino ad allora. Questo nuovo trend del capitalismo si propaga ai paesi industrializzati del centro Europa. La sovranità monetaria e valutaria in Italia resta in mano alla classe politica nazionale, consentendole così di autogovernare pur dopo lo storico divorzio tra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro che dal 1981 determina il continuo innalzamento del debito pubblico. Ma alla fine degli anni ’80 si registrò un passaggio di fase epocale: il crollo dell’Unione Sovietica, la globalizzazione economica e finanziaria, la transizione dalla “old” alla “new economy” dematerializzata e la rivoluzione tecnologica, causarono la perdita di ogni potere di contrattazione della classe operaia e, conseguentemente, del suo ruolo di contro-bilanciamento del potere capitalistico. La democrazia e gli stati divennero superflui, nel senso che nessuno poteva più imporre alle multinazionali di accettare, i limiti al proprio libero sviluppo rimanendo a guinzaglio delle pretese e costi della democrazia. Ma oggi non comprendiamo più sia per l’oggettiva ed estrema complessità dei processi in corso, sia per il crescente e coltivato divario tra cultura di massa e sapere, riservati alle ristrette oligarchie che governano il nuovo ordine. Le nuove gerarchie di potere non dividono solo chi ha da chi non ha, ma da chi sa da chi non sa. Oggi come ieri, sul terreno del sapere si gioca una partita politica fondamentale.
Vige un sistema di regole orientato a trasformare la finanza da potere di mercato a potere istituzionale, riducendo al minimo la rappresentanza popolare. Servendosi dei media da loro sponsorizzati, che nei momenti di decisioni cruciali, attuano come dei buoni prestigiatori delle deviazioni su informazioni secondarie, o talk show pilotati in cui gli oppositori raramente vengono invitati, per distrarci dai giochi di prestigio, a noi incomprensibili. Mentre noi passeggiamo nei mercatini natalizi, a Bruxelles, si decide di cambiare la manovra del governo arrogante di turno. Da diverso tempo studio quali siano le forze in campo, i termini reali del conflitto, quali le sofisticate tecniche adottate sul piano economico, giuridico e istituzionale per drogare il funzionamento del mercato, che ha dato vita a una economia malata. Chi osa urlare fuori dal coro è definito “populista”, termine usato polemicamente sempre più nel linguaggio politico attuale, per coloro che non ci piacciono. Uno degli slogan più sentiti è che i Populisti che ci rappresentano, non avrebbero i soldi per mantenere le promesse, e che mancano di esperienza. Qualcuno di ritorno dai mercatini, spieghi a tutti noi cosa ci chiede il mercato della finanza?
Da un cinguettio di Fusaro: “Ai pagliacci mondialisti delle magliette rosse degli attici di Nuova York preferisco di gran lunga i gallici della giubba gialla che stanno lottando contro le aberrazioni della globalizzazione no border”.
Il fenomeno dei movimenti anti-sistema, risulta essere più legato all’assenza di fiducia e speranza per il futuro di un lavoro, di un salario e di una vita dignitosa, che non alla ripulsa e all’odio razziale contro gli immigrati. Buon approfondimento a tutti sulla spiritualità del Natale, e sui mercati in festa per gli introiti di questo evento commerciale.
M.Pluchino