Dire a qualcuno che è un gay è una vera e propria ingiuria, anche se la persona a cui è rivolta l’espressione ha effettivamente tendenze omosessuali e nonostante si dica chiaramente di non avere pregiudizi e, anzi, di essere “laici apertissimi”.
È quanto ha stabilito la Cassazione che – con la sentenza 1939 – ha dichiarato inammissibile il ricorso di D. S. contro la condanna inflittagli dal tribunale di Ancona che lo ha multato di 400 euro in sede di rinvio.
Il 17 novembre 2002, ricostruisce la sentenza 10248 di Piazza Cavour, D. S. aveva scritto a L. T., con il quale da anni aveva un «vivo antagonismo» per arrivare al posto di comandante della polizia municipale di Ancona, sottolineando l’essere gay del suo rivale «che aveva trascorso una vacanza in montagna con un marinaio e che era stato allontanato da un club sportivo frequentato da ragazzini».
Ma non basta. Uscendo dalla sfera delle preferenze sessuali l’imputato accusava l’uomo anche di aver sottratto dei documenti dai pubblici uffici e di aver favorito in un concorso la nipote dell’imputato stesso. Tanto era bastato per far scattare una condanna per ingiurie, nei primi due gradi di giudizio, nei confronti di D.S. Il tribunale di Ancona, infatti, ha ritenuto che le espressioni usate dall’imputato nella lettera «esprimevano riprovazione per le tendenze omosessuali e un inequivoco ed intrinseco intento denigratorio riferito all’allontanamento da un luogo frequentato da minori».
Inutilmente D. S., la cui condanna era stata annullata una prima volta dalla Cassazione (sostenendo che «il termine gay di per se non è offensivo e che nella specie non c’era animus nocendi dal momento che l’imputato nella lettera aveva dichiarato di nutrire simpatia per L. T., di essere laico e apertissimo e di non giudicare i costumi sessuali di nessuno»), ha fatto ricorso in Cassazione, sostenendo che non aveva alcuna intenzione di denigrare il collega ma che voleva semplicemente esprimere il perché tra loro non si erano mai instaurati ««rapporti di familiarità».
Per la Cassazione, il ricorso dell’imputato non può essere accolto neanche in relazione al fatto che tra le parti esistevano «rapporti tesi», che avrebbero potuto, secondo il ricorrente, portare al riconoscimento della scriminante della provocazione: ciò, si legge nella sentenza, «è in contraddizione con il tempo trascorso rispetto ai fatti indicati come provocatori, poichè una lettera inviata dopo un giorno da essi, col corollario del tempo necessario per concepirla e scriverla, esclude in radice il concetto di immediatezza».
Piazza Cavour ha anche evidenziato che «non vi è spazio per la prova liberatoria» nei confronti del vigile urbano che ha denunciato per iscritto l’omosessualità del collega.
I supremi giudici sostengono che proprio il fatto che l’imputato abbia dichiarato di essere «laico ed apertissimo e di non giudicare i costumi sessuali di nessuno» denota «chiaramente la riprovazione dell’imputato per le tendenze omosessuali del rivale e la valenza offensiva attribuita al termine gay ed alla peculiare diversità che evidentemente, a suo avviso, esprimeva».
Secondo la Cassazione, dunque, “il tribunale di Ancona, in sede di rinvio, ha svolto correttamente la sua funzione inquadrando per un verso il termine ‘gay’ utilizzato nella lettera agli episodi che la sentenza annullata aveva omesso di considerare – la vacanza con il marinaio e l’allontanamento dal club frequentato da minori – e valutando le ulteriori accuse, presenti nella missiva ritenuta offensiva, come denigratorie, con giudizio di merito logicamente motivato”.
Il signor D.S., inoltre, è stato condannato a sborsare 1000 euro alla cassa delle ammende e a rifondere il collega ingiuriato con 3000 euro per le spese processuali sostenute.
La sentenza della Cassazione è stata accolta positivamente dagli ambienti Lgbt.
In particolare per Imma Battaglia, presidente di Gay Project, la sentenza della suprema corte “è molto importante sia sul piano del diritto che su quello culturale”. “Ancora troppo spesso dare del gay è considerato un modo per offendere qualcuno – ha proseguito la Battaglia – fa parte degli usi e dei costumi di molti ed è bene che si inizi a cambiare registro”.
Dello stesso tono sono le dichiarazioni di Franco Grillini, presidente di Gaynet secondo cui “la sentenza della Cassazione è sacrosanta, ingiuriare un omosessuale è una reato esattamente come ingiuriare qualsiasi altro cittadino”.
“L’uso della parola gay come ingiuria – prosegue – è inaccettabile per non parlare di tutte le ingiurie e le offese che verso gli omosessuali si adottano persino nelle trasmissioni televisive senza freni. Il reato di ingiuria, di calunnia e di diffamazione aggiungiamo noi, esiste da tempo nel nostro codice penale, fa parte di quei reati d’onore che il Parlamento non ha mai voluto riconoscere come omofobia legiferando coerentemente.
Ancora una volta – conclude Grillini – la giurisdizione svolge un ruolo di supplenza ad un Parlamento sordo ad ogni richiesta della comunità Lgbt”.
Anche per Vladimir Luxuria «ancora una volta la Cassazione supplisce alla mancanza di leggi sull’omofobia e la transfobia riconoscendo dignità a tutte le persone indipendentemente dal loro orientamento sessuale».
La sentenza della Cassazione non è piaciuta invece ad Aurelio Mancuso, storico presidente di Arcigay: “La cultura di questo Paese continua a essere arretrata. L’appellativo gay non può essere un’offesa. È una condizione ormai considerata normale nella società”.
“Ci sono altri termini, come frocio o pederasta che possono essere sì considerati offensivi – prosegue Mancuso – ma gay no. Mi sembra una di quelle sentenze strane che ogni tanto emergono dalla Cassazione, ma che non tengono conto dell’evoluzione sociale del Paese”.