“Tutti quelli che sono qui mi approverebbero, se il timore non frenasse le lingue. Ma la tirannide fra molti altri vantaggi ha anche quello di fare e dire ciò che vuole” (Sofocle, Antigone)
Nella notte tra il 28 e il 29 giugno, dopo quattordici giorni di tergiversazioni da parte dell’Ue e dopo la biasimevole ammissione d’incapacità da parte della Corte Europea dei Diritti Umani, Carola Rackete, Capitana della ong Sea Watch 3, approdando a Lampedusa malgrado il divieto del Ministro dell’Interno italiano, ha fatto solo il proprio dovere per salvare le vite di 42 donne e uomini stremati.
Sottoposta per quattro giorni agli arresti domiciliari per il reato di resistenza e violenza a nave da guerra – accusata di non aver rispettato l’alt di una motovedetta della Guardia di Finanza e di averla “speronata” durante la manovra di attracco. Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Agrigento, Alessandra Vella, nella serata di Martedì 2 luglio non convalida il fermo della comandante e nell’ordinanza, con la quale ne decreta la scarcerazione, va oltre, dichiarando che la comandante della Sea Watch ha agito nell’«adempimento di un dovere di soccorso il quale non si esaurisce nella mera presa a bordo dei profughi ma nella loro conduzione fino al più vicino porto sicuro».
La decisione di Carola Rackete di forzare il divieto di approdo risponde, dunque, all’obbligo di prestare soccorso e prima assistenza agli stranieri giunti, sul territorio nazionale, a seguito di un salvataggio in mare. Il provvedimento del gip di Agrigento ripristina il primato del diritto rispetto a quello della forza. Come spiega dettagliatamente il gip nel provvedimento suddetto, il diritto è dalla parte della Capitana, illegale (e disumana, aggiungiamo) sarebbe infatti stata la sua condotta qualora non si fosse assunta la responsabilità di portare in salvo le vite dei naufraghi soccorsi in mare. Il Giudice, ancora, attraverso il richiamo a norme internazionali cogenti, dimostra sia l’illegittimità della pretesa di chiudere i porti da parte del Ministro dell’Interno, sia del divieto finale di attracco della Sea-Watch dopo 15 giorni di attesa, ripristinando così l’equilibrio dei valori e la prevalenza dell’incolumità della vita umana. Inoltre, la Capitana non ha praticato nessuna resistenza e violenza a nave da guerra «le navi della Guardia di Finanza» si legge ancora nell’ordinanza, «sono navi da guerra solo quando operano fuori dalle acque territoriali o in porti esteri», circostanza evidentemente diversa da quella di Lampedusa. Sullo «speronamento» della motovedetta, invece, la gip interviene dichiarando che: «da quanto emerge dalla visione dei video il fatto deve essere notevolmente ridimensionato nella sua portata offensiva».
La scarcerazione di Carola Rackete ristabilisce un senso civile e profondamente umano all’agire di questa moderna Antigone che si è assunta la dura responsabilità di portare in salvo 42 vite umane. Il tentativo di trasformarla in un “nemico dell’umanità”, definendola “pirata”, ovvero nemica degli stati perché ha ritenuto suo compito e dovere salvare vite umane è stato respinto. Nonostante l’ordinanza di scarcerazione del Tribunale di Agrigento, la Procura procede separatamente a carico della Capitana per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. I problemi restano. Resta la gogna sessista e razzista messa in atto dal Ministro dell’interno italiano, scagliatosi rabbiosamente e con gli epiteti più scabrosi nei confronti della Capitana, resta la sua folle reazione nei confronti della Legge, prima da lui stesso invocata e poi contestata, intimando al gip di svestire i panni da Magistrato. Resta l’assordante silenzio, quando non aperto sostegno, di molti italiani e italiane. Resta il tentativo manifesto di trasformare la solidarietà in un reato e legittimare un nuovo tipo di guerra, quello diretto alla vita e all’umanità di tutte e tutti noi.
Per questi motivi, nonostante la notizia della scarcerazione di Carola Rackete giunta nella serata di Martedì a Basilea, così come a Ginevra, si è deciso di confermare il presidio per la giornata del 3 luglio in solidarietà alla Capitana della Sea Watch, che si ricollega alle numerose iniziative organizzate in tutta Europa dalle comunità italiane e non, sotto la sigla #Freedom for Carola Rackete.
Il presidio di Basilea, svoltosi dinanzi al Consolato italiano, ha ribadito la necessità di una liberazione “senza se e senza ma” di chi opera per la salvaguardia e la salvezza di vite umane, che altro non è che la liberazione di tutte e tutti noi dall’odio e dall’orrore.
I partecipanti con la loro azione hanno cercato, in mezzo ai debordanti tentativi razzisti, di stabilire un filo rosso di solidarietà tra chi, da una parte e l’altra del mare, vive situazione di precarietà e povertà. Hanno agito nel tentativo di ripristinare quelle “leggi del Cielo non scritte che non da oggi e da ieri, ma da sempre, sugli uomini si ergono immortali” ovvero rifiutare la legittimazione del discorso dell’odio e rigettare la disumanità fra donne e uomini liberi ed eguali.
Diversi cartelli nelle mani di ragazzi e ragazze presenti, riportavano l’imperativo, che suona come una preghiera “Restare Umani”, ovvero non accettare e non abituarsi all’orrore. Altri chiedevano “Porti Aperti” per aprire ad un’altra politica delle migrazioni e dell’accoglienza, a politiche di libera circolazione delle persone, uniche alternative ai vincoli differenziali su base razziale, nazionale e sessuale. Il messaggio che il presidio di ieri ha voluto veicolare è semplice quanto lapidario: la rotta va invertita, bisogna ritornare umani!
Al termine del Presidio i partecipanti hanno tentato di consegnare alla segreteria consolare del Consolato italiano di appartenenza un documento di protesta per la vicenda che ha viste tristemente protagoniste la Capitana Carola Rackete e la ong Sea Watch 3; lettera diretta al Ministero degli Affari Esteri italiano. Dinanzi all’indisponibilità del Consolato a riceverli, i partecipanti all’iniziativa hanno depositato il documento e hanno sciolto il presidio.
Rete Restiamo Umani Basilea
Il Presidio di Basilea