L’anno scorso il direttore di Rai Tre Paolo Ruffini fu sostituito dalla direzione generale con Antonio Di Bella. Paolo Ruffini non fu licenziato, ebbe soltanto un altro incarico, tra l’altro di prestigio, come la direzione di Rai Premium e Rai Educational, ma lui, non contento, si rivolse al tribunale del lavoro e la sentenza di questi giorni è che deve essere reintegrato nell’incarico che aveva, nel frattempo, occupato da un altro direttore.
L’art. 18 dello Statuto dei lavoratori nacque come antidoto contro l’arbitrio dei datori di lavoro che magari licenziavano come e quando volevano, ma nel corso degli anni – e spesso per la libera e magari ideologica interpretazione dei giudici – è diventato uno strumento di arbitrio contro l’azienda, a tal punto che sono stati reintegrati, con il relativo pagamento degli stipendi arretrati, tutti coloro che erano stati licenziati perché sorpresi in flagrante a rubare, a falsificare cartellini, a fare contemporaneamente altri lavori. Da un eccesso all’altro: da strumento di giustizia è diventato mezzo per garantire il posto a vita al di là del merito e della correttezza del comportamento.
È vero che ultimamente è stato introdotto l’arbitrato, cioè la possibilità di rescindere il contratto mediante l’accordo tra le parti e dietro pagamento di un certo numero di mensilità o di annualità, ma evidentemente nel caso di Paolo Ruffini l’arbitrato non poteva essere applicato, anche perché non è stato licenziato ma lavora sempre in Rai. Però, la cosa non è meno grave, perché a decidere cosa deve fare o non deve fare non è un’azienda, in questo caso la Rai, ma il giudice, tanto più che la Rai dovrebbe essere un’azienda “pubblica” e di fatto non lo è.
Quando c’era un solo canale, questo era “occupato” dai democristiani, il secondo fu appannaggio dei socialisti e il terzo divenne proprietà dei comunisti: fu definita “lottizzazione”, da cui nessun partito poteva e può chiamarsi fuori. Col tempo, la divisione in famiglie è scomparsa, anche perché i socialisti non ci sono più, ma Rai Uno è la voce del governo, a cui si è aggiunta Rai Due, e Rai Tre è sempre saldamente restata nelle mani prima del Pci, poi del Pds, poi dei Ds ed ora del Pd.
Il caso Paolo Ruffini e Antonio Di Bella è una lotta tutta interna al Pd – ma la stessa cosa potrebbe accadere al Pdl, perché i partiti, a differenza di quel che alcuni dicono, sono tutti uguali e lottizzatori – dove con il cambio Franceschini-Bersani alla guida del Pd è avvenuto il cambio Ruffini (area cattolica) che è stato sostituito da Di Bella (area Bersani).
Chi paga le conseguenze di questa guerra tra partiti e, in questo caso specifico, tra fazioni? Ovviamente i cittadini che pagano il canone e con esso anche gli sprechi, con un’aggravante: non possono non pagare perché il canone è legato al possesso dell’apparecchio.
Ora, tutto questo avviene perché non c’è distinzione tra informazione e partiti. In Svizzera non è così. È evidente che ogni conduttore ha le sue idee politiche, ma le tiene per sé. Quando conduce un dibattito, è un arbitro, non un partigiano, come avviene smaccatamente in Italia. E i dibattiti politici avvengono sui problemi, sui contenuti e sulle soluzioni, non sull’abilità nell’insultare o nell’accusare l’avversario.
Per farla breve, un caso Ruffini-Di Bella in Svizzera sarebbe impensabile, in Italia è la regola, nell’uno come nell’altro schieramento, ed è per questo che a dominare sono le polemiche, da decenni.
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