David Cameron, il neo premier inglese nominato appena tre settimane fa e new entry nel club del G8 e del G20, riunitisi in Canada qualche giorno fa, ha giudicato questi vertici internazionali come troppo “parolai” e pochissimo ”produttivi”. Ha scritto testualmente: “Troppo spesso questi meeting internazionali non riescono ad essere all’altezza dell’iperbole e delle promesse fatte”, dicendosi “sicuro che anche altri leader lo ammetterebbero”.
Non c’è bisogno di cercare conferme, basta guardare alle proposte che vengono fatte e che spesso, come nel caso degli Stati Uniti, sono già provvedimenti o approvati o dall’iter legislativo avanzato. Obama, ad esempio, si è presentato al vertice con un accordo politico già siglato sulla riforma finanziaria. È improbabile che smentisca se stesso se altri leader di altri Paesi hanno fatto o intendono proporre riforme di tipo diverso.
È nota la differenza di vedute tra gli Stati Uniti e l’Europa sul modo migliore per per uscire dalla crisi economica: i primi sostengono innanzitutto la crescita, l’Europa si preoccupa in modo preponderante del risanamento dei bilanci pubblici. Altro argomento di particolare importanza: la tassa sulle transazioni bancarie e il contributo del sistema bancario ai costi della crisi. Roma e Londra giudicano negativamente l’ipotesi di questa tassa, a differenza di Parigi e Berlino che la sostengono; per contro l’Italia e l’Inghilterra sono favorevoli affinché anche il sistema bancario paghi i costi della crisi.
Non solo. Contro la tassa sulle transazioni sono anche il Brasile e la Russia, tra vari altri. Dmitrij Medvedev, presidente della Russia, definisce la tassa sulle transazioni bancarie “ispirata dal desiderio di conquistare il consenso degli elettori, non di riformare il sistema bancario”, bollandola come “demagogica” e controproducente perché “le banche trasferirebbero l’onere sui loro clienti, accrescendo il costo dei servizi finanziari e dei prestiti”. Puntuale il monito del Fmi, il Fondo monetario internazionale, che ha messo in guardia i leader del vertice: in assenza di un coordinamento degli interventi e quindi di una uniformità delle decisioni c’è il rischio che nei prossimi cinque anni potrebbe esserci una perdita di quattro mila miliardi di dollari di Pil nel mondo, che corrisponde ad una cifra di trenta milioni di disoccupati. Un’ipotesi non campata in aria, se è vero che a fronte di una timida ripresa della crescita economica non corrisponde un aumento dell’occupazione, bensì un aumento della disoccupazione.
E allora? Siccome gli Stati sono sovrani e ciascuno affronta i problemi secondo gl’interessi dei singoli Stati e soprattutto delle “compatibilità” politiche, sindacali e storiche di ciascuno, è impossibile che prima di agire si debbano aspettare le decisioni dei vertici internazionali. Dunque, i vertici non possono essere caricati di aspettative e di promesse che non possono mantenere.
Sono per questo inutili? Non è proprio così. Essi vanno giudicati per quello che sono, cioè degli incontri tra Paesi sempre più numerosi (dal G8 al G20) dove ci si confronta sulle analisi e sulle proposte e si prendono delle decisioni che spesso sono frutto di compromessi, ma che ciascuno Paese valuta e adatta.
Senza contare che questo tipo di vertici sono anche l’occasione di una fitta rete di colloqui bilaterali, al termine dei quali si siglano intese e cooperazioni politiche ed economiche che poi sono il sale delle relazioni internazionali.