Gli avvenimenti politici della settimana scorsa sono tanti e variamente importanti, ma uno ha tenuto campo e ancora lo tiene: lo scivolone del governo sul caso Brancher. Cominciamo da uno dei tanti mosaici che compongono il quadro della crisi economica e della manovra finanziaria del governo: il referendum dei lavoratori sul nuovo contratto Fiat di Pomigliano d’Arco.
Come si sa, la Fiat è disponibile ad investire soldi per la produzione della nuova Panda, ma chiede garanzie sulla produttività dei lavoratori e sull’affidabilità sindacale. Al centro delle trattative il nuovo contratto che, senza dirlo esplicitamente, offre all’azienda il potere giuridico di procedere anche ai licenziamenti se vengono ravvisati comportamenti abnormi.
Detto così potrebbe sembrare, da parte dei sindacati che hanno firmato l’accordo, un cedimento, invece le cose non stanno in questo modo. Non è possibile, specie in tempi di crisi economica grave come quella che stiamo vivendo, scioperare al minimo stormir di vento, come è accaduto a Termini Imerese motivando l’astensione dal lavoro con i giudizi espressi da Marchionne sulla situazione in fabbrica. Non è possibile andare avanti con un assenteismo elevato endemico, fino a raggiungere picchi del 40% in occasione di elezioni, di avvenimenti sportivi. Per non parlare di altri atti ai danni dell’azienda su cui è meglio stendere un velo di silenzio. Ci si lamenta della mancanza di lavoro, ma poi quando qualcuno per dare lavoro chiede impegno e serietà ci si inalbera invocando diritti negati o traditi.
Bisogna essere chiari. Il Sud ha bisogno di gente che investe per creare lavoro e ricchezza, ma chi investe deve poter operare in condizioni “normali”, non essere ostacolato in vario modo. Il Sud, insomma, non può sperare di ricevere dall’alto lavoro e stipendi senza contropartita.
Di questo molti lavoratori sono consapevoli, tanto è vero che il 62% del personale ha accettato l’accordo, mentre quasi il 40% lo ha rifiutato. Marchionne, di fronte all’ampiezza del rifiuto, è scettico sulla possibilità di procedere agli investimenti. Per questo governo, confindustria e sindacati stanno cercando di trovare una soluzione chiara ed accettabile. La Cgil, il sindacato che non ha firmato l’accordo, ha manifestato sabato scorso contro la manovra finanziaria, definita “ingiusta”.
La Cgil non è la sola che ha protestato. Il vertice delle Regioni ha minacciato di restituire alcune deleghe allo Stato se i tagli non saranno rivisti, ma il ministro Tremonti ha risposto che si possono fare piccole correzioni – ad esempio si manterrà il blocco degli stipendi degli insegnanti ma saranno rivisti gli scatti d’anzianità di carriera, oppure si aggiusterà la diversa articolazione della spesa per le forze dell’ordine – ma sull’entità dei tagli non sarà possibile tornare indietro, visto che essi sono l’unico strumento per poter eliminare gli sprechi di cui le Regioni stesse, cioè le pubbliche amministrazioni, hanno fatto e continuano a fare abbondante uso.
Le minacce della Conferenza delle Regioni di restituire alcune deleghe non pare abbia turbato il ministro dell’Economia che ripete continuamente che il periodo delle vacche grasse è finito.
Ma è, come dicevamo all’inizio, il caso Brancher che ha dominato il dibattito politico, perché è evidente che la vicenda ha creato più di un imbarazzo al governo. Ricapitoliamo in estrema sintesi la questione. Una decina di giorni fa, sponsor Calderoli e Tremonti, il premier ha nominato un nuovo ministro, seppure senza portafoglio, low cost, come ha detto il ministro dell‘Economia. La nomina è avvenuta, pare, all’insaputa di molti altri ministri ed esponenti della stessa maggioranza.
L’opposizione, ma anche parte della maggioranza, l’ha legata al processo in corso a Milano in cui Brancher è imputato di aver accettato somme di danaro da parte di Fioroni, patron della Banca di Lodi che aveva tentato anni fa di scalare l’Antonveneta, il quale, in cambio, avrebbe avuto l’appoggio suo e della Lega alla lobby pro Fazio, allora Direttore Generale della Banca d’Italia. Infatti, il neo ministro doveva presentarsi al tribunale di Milano sabato scorso e non l’ha fatto adducendo l’impedimento istituzionale, motivandolo con la “organizzazione” del nuovo ministero.
Questa motivazione è stata ritenuta insussistente dal Quirinale che ha sottolineato con una nota ufficiale che un ministero senza portafoglio non ha bisogno di organizzazione. Tra le opposizioni, ma anche tra la maggioranza, ci sono state sollevazioni, specie quando il pm si è detto “preso in giro”, anche perché la seduta era stata convocata nel giorno di sabato, quando il Parlamento è chiuso.
Successivamente, il ministro ha corretto il tiro, specificando che più che di organizzazione del ministero si trattava di preparare i dossier in materia finanziaria che dovevano servire ai decreti legislativi di attuazione del federalismo fiscale. Fatto sta che sia per l’autorevolezza della provenienza dei dubbi (il Quirinale), sia per il tempismo della richiesta dello “scudo”, è scoppiata la polemica. Anche perché lo stesso Bossi, prima evidentemente d’accordo con la sua nomina, poi certamente seccato per l’accenno da parte di Brancher al fatto che avrebbe ricevuto la delega per l’attuazione del federalismo, lo ha trattato da “poco furbo”. Insomma, la sua posizione si era fatta talmente insostenibile che il neo ministro ha dichiarato che avrebbe rinunciato allo scudo e che si sarebbe presentato al processo il 5 luglio.
Non sappimo se questa dimostrazione tardiva di buon senso sgonfierà il caso o se lo gonfierà ancora di più, sappiamo però che il governo la figuraccia l’ha fatta tutta da solo.
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