Sul telefono di un minorenne si trova uno scambio di messaggi di questo tenore: «Abbiamo fatto un macello, lei si è sentita male ed è svenuta più volte». «Però è brutto così» è la risposta. E il minore ribatte: «Macché, è troppo forte». Questo è solo uno scorcio dei messaggi scambiati tra giovani e giovanissimi dopo lo stupro di gruppo ai danni di una ragazza. I fatti sono quelli tristemente noti alle cronache come “stupro di gruppo di Palermo”, ma prima c’è stato quello di capodanno a Primavalle, quello in Costa Smeralda, quello di Perugia, quello di Firenze. L’ultimo stupro di gruppo in termini di scoperta è quello di “Caivano”, che ha coinvolto due cugine di 10 e 12 anni. In tutti questi episodi è determinante il ruolo dei telefoni cellulari, con i quali i carnefici riprendevano e fotografavano le loro “prodezze” incuranti delle vittime, trattate come scadenti pezzi di carne sul quale accanire la propria primordiale fame di possesso e disprezzo. La produzione del materiale visivo serve senza dubbio a prolungare la soddisfazione primitiva, vantarsene, continuare a schernire la vittima, ridurla a oggetto da umiliare, tanta è l’ingordigia sfrenata di sfoggio della propria bruta “mascolinità” da non accorgersi che è tutto materiale di prova che gli si ritorce contro. Per fortuna, anche se, nonostante alcune immagini e dichiarazioni siano palesi, le vittime vengono comunque colpevolizzate. Impossibile negarlo, altrimenti non ci sarebbero dibattiti infiniti incentrati sulla condotta della vittima, quanto era provocante, come ha potuto trovarsi in quel luogo a quell’ora, perché ha bevuto e perfino come era vestita. E così all’infinito, come se non fosse abbastanza la violenza fisica della loro intimità, segue quella morale, sociale e psicologica, non di un gruppo circoscritto ma dell’intera comunità. La violenza diventa infinita e condivisa – termine molto social – e il branco si allarga.
Il fenomeno – perché dagli episodi sopracitati e i tantissimi altri altri non citati si può facilmente comprendere che quello dello stupro in branco è un fenomeno ormai diffuso – purtroppo grava tutto sulle vittime che si trovano ad essere completamente sole ad affrontare tutte le conseguenze, fisiche e non, senza alcun appoggio. Lo spiega bene il padre della ragazza violentata a Capodanno, durante lo “stupro di Primavalle”, che scrive alla ragazza stuprata a Palermo per rivolgersi a lei (e alla collettività), per dirle che certamente ha fatto bene a denunciare, ma l’avverte a prepararsi a quello che seguirà poiché adesso è sola: “Sei sola, perché gli altri non capiscono”, la gente non capisce cosa è uno stupro di gruppo e “il calvario di un essere spezzato nella sua dignità”. Essere vittima diventa così un “un marchio sociale indelebile: e questa è una atroce umiliazione, il primo stupro collettivo da affrontare”.
Lo stupro è collettivo quando ci sono decine di migliaia di iscritti ai canali social di diffusione del video della violenza; quando qualcuno si permette di giudicare la vittima; quando la vittima è marchiata a vita da tutto questo. Lo stupro è collettivo perfino quando si nega l’esistenza di una cultura maschilista, del possesso e dello stupro stesso. Quando si diffondono immagini di contenuto esplicito, quando si ricevono e non si denuncia. Quando si sa e non si dice. Quando si lasciano passare messaggi che riduce la vittima a oggetto e si accettano linguaggi di odio e mercificazione nei confronti delle donne o in generale quando il sessismo e la discriminazione di genere diventano una prassi accettata dalla società.
Riconoscere e condannare i veri carnefici, questa dovrebbe essere la prassi. Educare – in famiglia, nelle scuole e nella società – a una sana interazione con l’altro, anche questa dovrebbe essere la prassi.
Redazione La Pagina
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