Il presidente della Camera parla di un nuovo patto per arrivare alla fine
della legislatura, critica il governo e il premier, ma riafferma
la sua appartenenza al centrodestra
Dopo il discorso di Mirabello si può dire che Fini sta ritornando al passato. La chiave di lettura degli avvenimenti degli ultimi mesi è che il presidente della Camera aveva accettato malvolentieri di entrare nel Pdl e poi ha fatto di tutto per uscirne o per esserne estromesso.
Non per niente Casini ha detto: “Fini paga l’errore di due anni fa, mi copia tardi”. In effetti, quando Berlusconi annunciò la nascita del Pdl dopo un comizio, prima di entrare in auto (il famoso predellino), Fini disse: “Siamo alle comiche finali”.
Poi, qualche settimana dopo, accettò la fusione negoziando i posti negli organi decisionali del nuovo partito (70 a 30) in proporzione al peso elettorale. Fu Casini che non accettò e prese il largo, non sapendo né allora e né ora a quale sponda attraccare. Fini, a Mirabello, ha detto chiaramente che il Pdl non c’è più, quindi non ne vuole più far parte, ma, a differenza di Casini che si è spostato al centro e vorrebbe costruire un centro più ampio che non gli è riuscito e difficilmente gli riuscirà (tanto è vero che se avesse potuto sarebbe rientrato nel centrodestra), a differenza di Casini, dicevamo, Fini da destra non vuole allontanarsi.
Uno dei punti del suo discorso, infatti, che è poi quello che i suoi colonnelli Granata, Bocchino e Briguglio, hanno ribadito nelle ultime settimane, è che lui è di destra e a destra vuole restare.
Non solo. Voterà i cinque punti del programma di legislatura che il premier sottoporrà al Parlamento come mozione di fiducia della maggioranza, non farà ribaltoni, vuole però essere considerato la terza gamba della coalizione che non si potrà più reggere su Lega e Pdl più Movimento per le autonomie (Mpa), ma su Lega, Pdl e Futuro e Libertà, più l’Mpa.
Formalmente, quindi, la maggioranza è sempre quella di prima perché i voti sono gli stessi, però i punti vanno concordati anche nei dettagli. Fini, infatti, ha tenuto a ribadire che Berlusconi è un perseguitato da certa magistratura, che gli va garantito lo scudo costituzionale, che ha lavorato bene su molte cose e che quindi la legislatura dovrà rispettare le scelte degli elettori e realizzare il programma votato nel 2008.
Ha, però, preso le distanze dal Pdl “partito del padrone”, da una serie di atti del governo giudicati negativamente, ad esempio il rinvio delle multe per le quote latte sforate, le conseguenze che ne sarebbero derivate dalla legge sul processo breve, i tagli lineari del ministro Tremonti, la lunga vacanza del ministero dell’Industria, le genuflessioni “grottesche” al folklore di Gheddafi, la politica poco attenta verso i giovani, a cui bisognerebbe offrire un “patto generazionale”, il maggior rispetto per le cariche istituzionali.
Non entriamo nel merito di ognuno di questi punti perché sono secondari rispetto a quello fondamentale che riguarda il futuro della maggioranza, la sua tenuta o la sua crisi.
La prima considerazione è che definendo il perimetro della sua appartenenza politica – che è quella del centrodestra e solo quella – Fini ha “deluso” il centrosinistra e quanti speravano in una sua uscita dalla maggioranza per dare sostegno ad un altro governo che escludesse Berlusconi. Nel dibattito politico, fino a qualche giorno fa, c’era anche l’ipotesi di Fini alleato del Pd, ipotesi rilanciata da Rosy Bindi. Ora, quest’ipotesi scomparirà completamente dall’orizzonte, lasciando orfano e deluso più di uno a sinistra. Non per nulla, vari esponenti del centrosinistra hanno ricalibrato le dichiarazioni, mettendo l’accento più sulla crisi della maggioranza che sulla fine del berlusconismo.
La seconda considerazione è che Fini ha approfittato dei pochi spazi di manovra per allontanare da sé la responsabilità di una deflagrazione del centrodestra e di una crisi al buio. Ora la palla è stata abilmente rilanciata nel campo del Pdl. In sostanza, ha detto al premier: ritorniamo come quando non c’era il Pdl, dividiamoci di nuovo e siamo sempre alleati.
Cosa farà Berlusconi? Molto probabilmente accetterà il nuovo patto, per senso di realismo e perché può continuare ad essere il padrone del Pdl ma non della coalizione di governo. Qui, apriamo una parentesi.
L’accusa di Fini a Berlusconi di considerarsi “padrone” è vera e nello stesso tempo strumentale in quanto quando era lui il capo di An usava gli stessi metodi padronali (Fini è il “padrone” dell’Msi e poi di An e ora di Futuro e Libertà da prima della metà degli Anni Ottanta, cioè da quasi 30 anni!).Nel panorama partitico italiano Bossi è “padrone” della Lega anche lui da 30 anni, Di Pietro dalla nascita dell’Idv (addirittura l’Idv dipendeva e magari dipende ancora da un’associazione di cui i proprietari erano o sono Di Pietro, la moglie e la segretaria), Casini pure. Solo il Pd no, ma è un’altra storia che inizia col Pci i cui segretari gestivano a vita il partito e sta continuando con il Pds-Ds-Pd che, al contrario, cambiano un segretario all’anno, che è segno di forti contrasti interni.
Insomma, in Italia quasi tutti sono partiti padroni e forse non è un male in quanto ciò è un antidoto contro l’individualismo tipico degli italiani (si ricordino la Dc e il Psi prima di Craxi). Chiusa parentesi. Berlusconi, dunque, farebbe bene ad accettare, ma non a cedere sulla legge elettorale. In questo modo, potrà sempre dire che è fallito il suo progetto di ridurre il numero dei partiti (idea giusta ma evidentemente non Italia), ma non la maggioranza di centrodestra.
Quanto alla legge elettorale, che Fini vuole cambiare ma non sa ancora come, è la sua carta del rilancio della responsabilità dell’eventuale crisi a Fini.
La terza considerazione è una domanda: prevarrà il nuovo patto – cioè il realismo e la politica – oppure il litigio quotidiano che logorerà la maggioranza? La risposta non la possiamo dare noi, ma i fatti dei prossimi giorni e dei prossimi mesi.
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