La situazione politica sembra stia evolvendo nella direzione della presa d’atto che il governo non abbia più due gambe, ma tre. Il terzo piede è rappresentato dai gruppi parlamentari che prendono il nome di Futuro e Libertà (Fli) e che nel corso dei prossimi mesi saranno espressione di un partito, quello, appunto, di Fini.
Ma vediamo gli sviluppi delle posizioni in seguito al discorso tenuto dal presidente della Camera a Mirabello, località dell’Emilia Romagna, in provincia di Ferrara, dove deputati, senatori e simpatizzanti si erano ritrovati per il battesimo della nuova formazione politica costituitasi per distinguersi dal Pdl.
Gianfranco Fini, abbiamo detto nella scorsa edizione, aveva precisato i confini della nuova formazione, saldamente ancorata a destra, per riaffermare i principi di legalità a suo giudizio calpestati dal Pdl e in particolare dal suo leader e premier, il quale aveva risolto il dissenso interno espellendo il cofondatore “in due ore, senza possibilità di difendersi”. Secondo Fini, nessuna volontà di fare ribaltoni, anzi, volontà di portare a termine il programma elettorale da realizzare nei prossimi tre anni di legislatura, ma nello stesso tempo critica ai punti programmatici affrontati con troppa superficialità ai fini di difesa personale. Aveva ammesso che il premier è perseguitato da certa magistratura, ma ciò non lo autorizzava a far saltare migliaia di processi per risolvere i suoi problemi giudiziari.
Quindi, favorevole ad un provvedimento costituzionale che metta al riparo il premier fintanto che è presidente del Consiglio, ma no al processo breve se questo comporta l’annullamento anche di tanti altri processi e no anche alla regolamentazione delle intercettazioni. Il presidente della Camera non aveva forzato i tempi per la costituzione del nuovo partito, ma aveva fatto capire che l’uscita dal Pdl era irreversibile.
All’indomani di questo discorso, tenuto con i toni, i giudizi e a volte i contenuti di un oppositore, la Lega aveva dichiarato che Fini aveva dato un colpo di acceleratore al voto anticipato, soprattutto perché il presidente della Camera si era detto favorevole al federalismo fiscale ma solo se non fosse stato contro una parte dell’Italia.
Il Pdl aveva insistito sul fatto che avendo parlato da capo partito contro quello di maggioranza relativa (Pdl), di cui era stato cofondatore, Fini non era più imparziale, per cui doveva dimettersi da presidente della Camera.
Si vede chiaramente che il Pdl era stato colpito dalla volontà dei finiani di fare un nuovo partito, tanto è vero che Fabrizio Cicchitto ha posto il problema delle dimissioni alla ripresa dei lavori della Camera, ottenendo l’uscita ufficiale di Fini dal Pdl e la sua adesione al gruppo parlamentare di Futuro e Libertà.
Umberto Bossi, a questo punto, pensando che Fli avrebbe logorato con le sue critiche la maggioranza di governo e l’azione del governo stesso, ha minacciato di recarsi dal Presidente della Repubblica per chiedere ufficialmente le dimissioni di Fini, il quale ha ribadito pubblicamente che non le avrebbe date in quanto la Costituzione non prevedeva le dimissioni del presidente della Camera se non in caso di palese incapacità di intendere e di volere.
Insomma, c’è stata un’escalation di botta e risposta tra la Lega e Fini, ma dopo il vertice tra la Lega e il Pdl è passata la linea di Berlusconi che ha detto che il governo andrà avanti con la richiesta di fiducia alla fine del mese e se non dovesse ottenerla si ritornerebbe alle urne.
In sostanza, Berlusconi capiva che la posizione di Bossi era una richiesta di chiarimento davanti agli elettori del conflitto apertosi nella maggioranza mesi fa, quando Fini aveva cominciato a criticare ogni provvedimento del governo, ma temeva che il capo dello Stato non avrebbe sciolto le Camere, ma che avrebbe potuto dare l’incarico ad un esponente moderato, tipo Beppe Pisanu o Pierferdinando Casini, il quale avrebbe potuto anche formare un governo raffazzonato con qualche transfuga dal Pdl, giusto per cambiare la legge elettorale in modo da neutralizzare Berlusconi.
Ecco perché il premier ha detto di voler andare avanti, di chiedere la fiducia sui cinque punti – che probabilmente saranno di più – e di voler governare “per il bene dell’Italia”. Questa decisione, alla fine, è stata condivisa anche da Bossi – che aveva parlato di votare contro la fiducia pur di andare alle elezioni (“stravinciamo”) – e da Fli.
È ben possibile, a questo punto, che la maggioranza terrà per tutta la legislatura. Erano favorevoli alle elezioni la Lega e Di Pietro, ma il resto del centrosinistra era contrario in quanto se il governo litiga – o ha litigato – il centrosinistra lo sta facendo senza il clamore della stampa, ma altrettanto duramente.
Bersani, consapevole dell’impreparazione del Pd a vincere, sta cercando di fare alleanze anche con Rifondazione di Sergio Ferrero e con i Comunisti di Diliberto (niente alleanza di governo, ma elezioni nel Pd di una decina di esponenti della sinistra radicale), con ciò suscitando le critiche aperte e minacciose di Veltroni che vuole solo un’alleanza riformista e che starebbe pensando di creare gruppi parlamentari autonomi sull’esempio di Fli.
D’altra parte, questo tentativo è contrastato anche dai cattolici del Pd che hanno minacciato una scissione nel caso ci sia un ritorno all’Unione. Senza contare la polemica durissima tra l’Udc di Casini e l’Api di Rutelli da una parte e l’Idv di Di Pietro dall’altra.
Queste due forze sono antitetiche sia come programmi che come collocazione politica: un’alleanza tra di loro è impossibile.
In realtà, sono i guai della sinistra che rafforzano la destra, per la quale i momenti più difficili sembrano essere passati, anche se può sempre accadere di tutto.
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