C’è qualcosa che fa male. Fa male al cuore, alla memoria, alla storia condivisa di milioni di persone. Il decreto cittadinanza che il governo italiano ha imposto non è solo una questione di norme, di articoli di legge, di burocrazia. È una scelta culturale e politica che colpisce nel profondo ciò che siamo, ciò che siamo stati, e ciò che potremmo smettere di essere.
L’Italia, lo sappiamo bene, non è solo quella dentro i suoi confini. L’Italia è anche, e forse soprattutto, quella che vive fuori. Nelle Americhe, in Europa, in Australia, in Africa. È fatta di figli e nipoti di emigrati che hanno portato con sé una lingua, dei sapori, una fede, una musica, una malinconia. Persone che, pur non vivendo più sulla penisola, non hanno mai smesso di sentirsi italiani. Italiani nel cuore, nelle feste di famiglia, nei racconti attorno alla tavola, nelle parole dette e in quelle custodite in silenzio.
Il nuovo decreto cittadinanza, però, sembra ignorare tutto questo. Dietro la facciata del rigore, si nasconde una scelta di chiusura. Si fa finta di voler “mettere ordine”, ma in realtà si mette distanza. Si dice di voler “combattere gli abusi”, ma si colpiscono anche i giusti. Si vuole “semplificare”, ma si finisce per svuotare di senso l’identità italiana all’estero.
E allora bisogna dirlo con forza: semplificare non può significare cancellare. Generalizzare non può voler dire colpire tutti. E soprattutto: difendere la cittadinanza non può diventare un pretesto per restringerla, per negarla, per renderla un privilegio da concedere con il contagocce.
Dietro ogni domanda di cittadinanza ci sono storie vere. C’è Maria, nata a Rosario, in Argentina, che da bambina ascoltava i racconti del nonno calabrese. C’è João, in Brasile, che ha imparato a cucinare la pasta come la faceva la bisnonna di Napoli. C’è Léa, a Bruxelles, che ogni estate veniva in Sicilia con i genitori per “tornare a casa”, anche se non ci era mai nata. Ci sono famiglie intere che hanno trasmesso, con amore e orgoglio, la lingua, le tradizioni, i valori dell’Italia, come se fossero un’eredità sacra.
A tutte queste persone, oggi, si sta dicendo che non basta. Che quel legame non è sufficiente. Che serve di più. Che bisogna dimostrare, certificare, superare ostacoli sempre più rigidi. Che la cittadinanza non è un riconoscimento di appartenenza, ma una concessione da meritare.
È questo che fa male. Questo senso di rifiuto. Come se chi vive all’estero fosse sempre un sospetto da verificare, mai un figlio da accogliere. Come se non ci fidassimo più della nostra stessa diaspora. Come se la storia dell’emigrazione italiana fosse un fardello da dimenticare, invece che un orgoglio da custodire.
Ma l’identità non è una pratica da compilare. Non è un modulo, un certificato, un timbro. È qualcosa di vivo, che pulsa nel tempo. È fatta di appartenenza, di ricordi, di scelte quotidiane. È fatta di chi, anche senza essere mai stato in Italia, ha scelto di sentirsi italiano. E lo ha fatto con amore, non per interesse.
Sappiamo bene che gli abusi esistono. Ma una democrazia vera non risponde agli abusi con la chiusura indiscriminata. Risponde con intelligenza, con equilibrio, con giustizia. Saper distinguere è il compito più alto della politica. Confondere tutto è il modo più facile per non affrontare davvero i problemi.
E allora chiediamoci: quale Italia vogliamo? Un’Italia che taglia i ponti con i suoi figli nel mondo? O un’Italia che li riconosce, li ascolta, li coinvolge?
Perché una cosa deve essere chiara: gli italiani all’estero non stanno chiedendo privilegi. Non vogliono corsie preferenziali. Chiedono solo rispetto. Chiedono che la loro storia venga riconosciuta. Chiedono di non essere usati come bersaglio per tensioni interne. Chiedono di non essere dimenticati, esclusi, cancellati.
Un’Italia che rinnega la sua diaspora è un’Italia che rinnega sé stessa. È un Paese che diventa più povero, più chiuso, più solo. È un Paese che perde la propria missione storica: quella di essere un ponte tra le culture, una terra aperta, una comunità solidale.
Chi è cresciuto lontano, ma ha amato l’Italia senza condizioni, merita ascolto. Merita fiducia. Merita cittadinanza – nel senso più pieno e nobile del termine. Perché cittadinanza è anche questo: sentirsi parte di una storia comune, anche quando si è lontani.
Oggi siamo di fronte a un bivio. Possiamo scegliere la chiusura o l’apertura. Possiamo decidere di semplificare davvero, ma nel senso migliore del termine: semplificare per includere, per facilitare, per avvicinare. Oppure possiamo scegliere la scorciatoia facile della diffidenza, del sospetto, dell’esclusione.
Ma se sceglieremo la seconda strada, perderemo molto più di qualche documento. Perderemo il cuore dell’Italia.
E allora diciamolo con forza, con dignità, con amore: l’Italia non è solo un territorio. È un sentimento. È una comunità sparsa, ma unita. È una famiglia che non può permettersi di lasciare fuori nessuno.
Carmelo Vaccaro
Consigliere CGIE eletto in Svizzera