Il premio Nobel per la pace di nuovo in carcere per aver violato i termini degli arresti domiciliari, ospitando un cittadino americano in casa propria
Non sappiamo se il processo iniziato lunedì a carico del Premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi, al momento in cui il giornale arriva nelle case dei lettori sia già terminato con la condanna. Certo, difficilmente sarà scagionata da una colpa che comunque non è sua, ma di quell'”imbecille” – come l’han¬no definito gli avvocati della difesa – che ha percorso a nuoto un tratto di lago di circa due chilometri per andarla a visitare a casa sua, dove stava scontando una detenzione domiciliare che sarebbe terminata il 27 maggio prossimo.
D’altra parte, se l’ex veterano della guerra in Vietnam, John Wil¬liam Yeattaw, 53 anni, abbia agito da solo o sia stato “spinto” a fare l'”improvvisata”, poco importa. La sua iniziativa di bussare alla porta di casa di Aung San Suu Kyi e di implorare di essere ospitato perché stanco è comunque quello che i ge¬nerali al potere dal 1988 volevano.
A tutti è noto che il Premio No¬bel non ha colpa, ma questo var¬rebbe in un Paese normale, non in uno governato col pugno di ferro e sostenuto solo dalla Cina. In Bir¬mania la legge ha il volto di quei generali e il fatto che la visita im¬provvisa dell’americano non sia stata denunciata equivale ad una trasgressione. L’anno prossimo in Birmania ci saranno le elezioni politiche e se la leader dell’oppo¬sizione sarà in prigione sarà certa¬mente un vantaggio insperato per i militari, i quali, secondo la Co¬stituzione fatta approvare l’anno scorso, si sono riservati, male che vada, un quarto dei seggi.
La posta in gioco è dunque gran¬de: ecco perché non ci si potrebbe stupire più di tanto se il colpo di te¬sta di John William Yeattaw fosse stato suggerito da qualcuno inte¬ressato a far nascere un casus belli ad un anno dalle elezioni, un tempo sufficientemente lungo per far di¬menticare la forzatura e sufficien¬temente breve per essere coperto da una condanna tra i tre e i cinque anni, tanti sono quelli previsti per aver trasgredito agli obblighi degli arresti domiciliari e per non aver avvertito le autorità del contatto. Il Premio Nobel è in carcere dal 1990 e dal 2003 agli arresti domi¬ciliari, che, come detto, dovevano finire fra pochi giorni. Per lei, forte dell’aureola internazionale e del carisma conquistato dopo anni di prigione, la vittoria sarebbe stata a portata di mano, tanto più che sicuramente avrebbe tenuto sotto i riflettori internazionali il suo Paese e i militari al potere.
Ma chi è l’americano che dalla Lega nazionale per la democrazia, il partito di Aung San Suu Kyi, è stato definito un “disgraziato”? Le autorità birmane che l’hanno arre¬stato – rischia sei anni per essere stato sorpreso in una zona vietata e per aver violato le norme sull’im¬migrazione, altro che legge Maro¬ni – l’hanno definito “studente di psicologia”.
In realtà, a 53 anni suonati, tutto può essere fuorché uno stu¬dente. John William Yeattaw è un veterano della guerra in Vietnam e il fatto che abbia attraversato i due chilometri del lago con un paio di pinne rudimentali, con uno zaino nero, una torcia elettrica, un paio di tenaglie e una tanica vuota per tenersi a galla è in linea con la sua storia. Solo che, come riferito dalla sua prima moglie, è affetto da “tur¬be psichiche”, “soffre di disturbi della personalità: con lui non puoi alzare la voce, appena lo tocchi, sobbalza”. Per la prima moglie è “malato” e procura guai alle per¬sone con cui entra in contatto. Nel caso di Aung San Suu Kyi l’analisi è perfetta. Già l’anno scorso aveva tentato l’impresa, ma ad accoglier¬lo aveva trovato la domestica che era stata irremovibile e l’uomo, pare esponente della chiesa mor¬mona, aveva lasciato una Bibbia andandosene con la promessa che sarebbe tornato, come ha fatto.
L’ultima parte della storia con¬trasta con l’ipotesi che qualcuno gli abbia suggerito l’impresa per mettere nei guai il Premio Nobel, solo che dietro i generali birmani ci sono gli strateghi cinesi di quel¬la Cina che non ha mai rinunciato al grande sogno di dominare tutta l’Asia. Non per nulla Emma Boni¬no, in un intervento su La Stampa, si è rivolta direttamente alla Cina chiedendo a Pechino di “smetterla di difendere i generali birmani”.
Il presidente americano, per bocca del Segretario di Stato, Hil¬lary Clinton, ha chiesto la libera¬zione della donna; la stessa cosa è stata fatta dall’Unione Europea e dai singoli Stati. Si sta creando un movimento di opinione, seppure con molta cautela e tra molte resi¬stenze visto che si tratta di un regi¬me rosso, per cui non è improba¬bile che il regime possa trovare un compromesso, magari la condanna ma non in carcere, con l’obiettivo di neutralizzarne la carica politico-elettorale ma senza premere l’ac¬celeratore sul piano umano.
Si vedrà, ma abbiamo l’im¬pressione che per il regime si an¬nuncino tempi duri: si tratta di un caso ormai esploso e di un Premio Nobel, due ingredienti che pos¬sono difficilmente essere messi a tacere.