Il decreto sullo sviluppo slitta ancora una volta perché “non ci sono soldi” Ci sarà prima un decreto con misure di semplificazione “a costi zero” e poi un pacchetto per fare cassa e per investire
Il decreto sullo sviluppo, reclamato da più parti come urgente – per gli industriali arriverebbe già a tempo scaduto – e promesso dal premier il 20 ottobre, subirà un ritardo. La dichiarazione di Berlusconi è stata lapidaria: “Non ci sono soldi”. Alfano, Segretario del Pdl, ha spiegato che lo sviluppo non avviene per decreto, che non è una bacchetta magica che fa comparire lo sviluppo dal nulla, ma che saranno una serie di provvedimenti che a loro volta metteranno in moto meccanismi che porteranno, col tempo, alla scossa all’economia. Un piano che viene preparato con cura e che avrà tempi diversi. Dapprima ci sarà un decreto legge con decine (o addirittura un centinaio) di misure di semplificazione per agevolare le imprese, il lavoro e gli investimenti nelle grandi infrastrutture energetiche. A costi zero. Questo decreto probabilmente vedrà la luce tra una settimana. Poi ci sarà un pacchetto di misure approvate in tempi diversi e che comporteranno anche investimenti e tempi di attuazione più lunghi perché le decisioni e le applicazioni dipenderanno dagli enti locali. Questo pacchetto comprenderà la dismissione degli immobili dello Stato, degli enti locali e previdenziali e di parte del demanio agricolo. Probabilmente, in questo secondo pacchetto rientreranno un anticipo della riforma tributaria con il concordato preventivo fiscale, la definizione agevolata del contenzioso (tra cittadino e Equitalia, l’ufficio di riscossione delle tasse, appunto, contestate) e l’accordo con la Svizzera sulla tassazione dei capitali italiani detenuti nella Confederazione. Da questo accordo, che sarà formato alla fine di novembre, dovrebbero entrare tra 20 e 25 miliardi di euro che in parte saranno utilizzati per abbassare il debito pubblico e in parte per finanziare le misure per la crescita economica. Tra le misure che saranno approvate in un secondo momento potrebbe esserci il piano EuroSud proposto da Tremonti a Bruxelles la settimana scorsa. Per ora il piano non è definito nei dettagli, ma si sa che esso poggia sui fondi europei già stanziati per il Sud e non utilizzabili perché comportano aiuti da parte dei governi, che questi ultimi non hanno, e poggia anche sull’eliminazione di vincoli che ultimamente sono caduti, come quelli che riguardano il divieto degli aiuti di Stato a imprese o banche in difficoltà. Questo per quanto riguarda la fase tre, le fasi una e due sono state rappresentate dalle manovre di agosto e di settembre per il pareggio di bilancio entro il 2013. Ma veniamo ai temi squisitamente politici che s’incentrano sulle alleanze e sulla legge elettorale, temi sui quali il dibattito è tanto acceso quanto retorico perché nasconde secondi fini, che sono quelli di creare e alimentare un clima di polemiche. In un recente convegno in Puglia il Terzo Polo è stato chiaro: andrà alle elezioni da solo, perché se ci sono punti di contatto con il centrosinistra e con il entrodestra, ci sono soprattutto punti di contrasto. “Né con Berlusconi, né con Bersani”, hanno ribadito Casini, Fini e Rutelli. Il Terzo Polo spera di “allargarsi”, attraendo parlamentari di destra e di sinistra scontenti dei rispettivi schieramenti. D’Alema per il centrosinistra e Alfano per il centrodestra hanno aperto all’Udc, ma le risposte sono state quelle prima citate. Come detto, l’Udc pensa di sfondare elettoralmente, anche se le elezioni amministrative hanno decretato un magro 4% di media, meno della sola Udc senza Fli di Fini e Api di Rutelli. Un flop. Per non rischiare di non raggiungere il quorum, l’Udc ha bisogno di ottenere una nuova legge elettorale che da una parte non obblighi a schierarsi, dall’altra le offra su un piatto d’argento di diventare l’ago della bilancia del sistema politico italiano. Si sa che nel centrosinistra sono in tanti a voler conservare il bipolarismo, proprio per evitare di ritornare alla prima Repubblica quando i governi si facevano e disfacevano nel giro di un anno (circa). Sarebbero quindi favorevoli alla legge attuale corretta, con preferenze e abolizione del premio di maggioranza. A gennaio si saprà se il referendum sarà accolto o meno, ma in caso di accoglimento nel centrodestra è maturata l’idea che per evitarlo si potranno apportare modifiche alla legge attuale, accogliendo appunto le preferenze. Non tutti, nel centrodestra, sono favorevoli alle preferenze e forse non hanno tutti i torti se le preferenze sono più di una. Si obietta: con le preferenze gli elettori scelgono i loro rappresentanti. Ma è proprio così? Quando le preferenze c’erano, furono abolite perché venivano eletti quelli che disponevano di cospicui finanziamenti occulti. Perché ritornare ad un sistema fallimentare? Si dice: oggi i parlamentari sono proposti dalle segreterie dei partiti e non hanno libertà perché poi non sarebbero ricandidati. La verità è che i candidati sono sempre stati e sempre saranno proposti dai partiti e saranno sempre liberi di cambiare schieramento, come risulta chiaro dai passaggi degli anni e dei mesi scorsi. Dunque, obiezione inconsistente. Questa legge, con qualche opportuna modifica (una sola preferenza), alla fine si rivela essere quella più ragionevole perché obbliga al bipolarismo e fa vincere e governare chi ottiene (con il sistema proporzionale) più voti. Nel 2006, anno di prima applicazione della legge (approvata dal centrodestra di allora, Casini e Fini compresi), vinse Prodi, nel 2008 vinse Berlusconi: l’alternanza è dunque garantita. È probabile che, dopo le polemiche, al momento di prefigurare davvero una nuova legge elettorale, non ci si discosterà molto da quella attuale. A meno che non ci si voglia rendere ridicoli cambiando una legge elettorale ad ogni tornata elettorale (tre leggi in 16 anni). [email protected]