Un libro di Anna Meldolesi sul numero di nascite maschili e femminili tra le famiglie immigrate di cinesi e indiani
In Cina, che ha circa un miliardo e 350 milioni di abitanti su un territorio che è sì grande ma non abbastanza, lo sviluppo demografico è regolato da una legge che tra le altre cose vieta alle coppie di avere più di un figlio. Tutto sommato, è una buona norma. Se s’impedisse ad una coppia di avere figli, sarebbe disumano; se si ricorresse alla soppressione, sarebbe una barbarie. Tuttavia, malgrado decenni di ideologia egualitarista, in Cina (ma anche in India, specie nel Punjab) le bambine sono considerate una disgrazia, non solo perché fornirle di dote (che è obbligatoria) è molto costoso e spesso proibitivo per la stragrande maggioranza delle famiglie, ma anche per motivi sociali e culturali. La donna è sostanzialmente un accessorio. Non è un mistero, dunque, che in questi Paesi il ricorso all’infanticidio non è raro. Ancora meno rare sono le distrazioni nei confronti delle neonate per provocarne la morte e nello stesso tempo per far finta che sia una disgrazia. In un documentario apparso alcuni anni fa sulla Rai, alle ore piccole per non suscitare reazioni, non solo queste “abitudini” venivano testimoniate con dovizia di particolari, ma veniva mostrato ciò che succedeva negli istituti dove venivano accolte o le bambine rifiutate o quelle nate con qualche problema fisico o mentale. In sostanza, venivano trascurate, abbandonate, con lo scopo, nemmeno tanto nascosto, di disfarsene tra la più disumana indifferenza. Tra bambine mai nate per aborto procurato e voluto e bambine in qualche modo soppresse dopo la nascita, la cifra tocca i cento milioni. Questa cifra, impressionante, è stata calcolata venti anni fa dal Premio Nobel indiano per l’economia, Amartya Sen. Pensate: cento milioni di donne rappresentano la popolazione femminile di Italia, Germania e Francia messe insieme. Un vero e proprio genocidio di proporzioni gigantesche, un quarto dell’intera popolazione europea. In testa vengono India e Cina con più di 42 milioni ciascuna, seguono Pakistan (6,1), Bangladesh (3,2), Iran (1,3), Corea (0,2) e Nepal (0,1).Recentemente, è stato pubblicato un libro intitolato “Mai nate”, scritto da Anna Meldolesi (Mondadori) che rivela come gli immigrati cinesi e indiani hanno portato in Italia (e sicuramente anche in altri Paesi d’immigrazione) queste abitudini e questi modi di pensare. I dati a disposizione dell’autrice si riferiscono agli ultimi quattro anni e sono dati certificati dall’Istat in riferimento ai cinesi e agli indiani nel nostro Paese. Qual è il centro dell’indagine? Si sa che in ogni Paese del mondo il rapporto naturale tra nati maschi e nate femmine è di 105 a 100, cioè ogni centocinque maschi nascono cento femmine. Questo rapporto può variare di qualche unità, ma i numeri sono quelli. Ebbene, premesso che in alcuni Paesi come Cina e India (ma anche, seppure in misura inferiore in Corea del Sud, nel Caucaso e anche in Albania) il rapporto è di 120 maschi a cento femmine (vuol dire che le femmine mancanti sono state in qualche modo soppresse), anche in Italia il rapporto è sbilanciato: 109 maschi contro 100 femmine. Si dirà che tutto sommato la differenza è talmente minima da rientrare nella normalità, e invece no. Prima di tutto, ci sono comunque delle “bambine mancanti”, poi, se si va ad analizzare la situazione a partire dal terzo figlio, si scopre che il rapporto è di 119 contro 100. È chiaro? Le famiglie cinesi e indiane in Italia fino ai primi due figli lasciano tutto al caso, poi, però, a partire dal terzo figlio, appunto, c’è un’impennata di maschi. Con i moderni strumenti della diagnosi prenatale, il recente mezzo di controllo delle nascite è diventato l’aborto. Solo che siccome in Europa l’aborto non è (ancora) il nuovo sistema di selezione di massa, le famiglie di immigrati cinesi e indiani s’inseriscono nelle maglie (più o meno strette o larghe che dir si voglia) della legge 194, per cui, complici i vari gradi di decisionalità, ricorrono o all’aborto assistito (la pillola che procura l’eliminazione del feto) o a quello terapeutico (ragioni psico-fisiche della madre o condizione economiche della famiglia).Insomma, conclude l’autrice, nelle nostre cliniche e nei nostri ospedali succedono cose di cui nessuno parla e che nessuno può denunciare, coperte in parte dalle maglie larghe della legge, in parte dal silenzio-assenso degli operatori sanitari e psicologici. Senza contare il ricorso a pratiche fai-da-te, come le “distrazioni” oppure, più spesso, con l’“assistenza” di persone che abusano di pratiche mediche. Ciò è dimostrato da arresti e da ritrovamenti di feti nei cassonetti della spazzatura o in altri luoghi ancora più difficili da controllare. Un fenomeno, conclude Anna Meldolesi, a cui bisognerebbe porre rimedio in fretta. [email protected]