Nel corso del festival teatrale Okkupation!, in atto a Zurigo dal 10 al 20 giugno, in collaborazione con l’Istituto di Cultura Italiana, è stato messo in scena “Questo buio feroce” di Pippo Delbono, unico spettacolo targato made in Italy presente nel palinsesto del festival svizzero.
Venerdì 12 e sabato 13 al Theaterhaus Gessnerallee di Zurigo si è potuto assistere ad uno spettacolo di produzione e realizzazione esclusivamente italiana. Si tratta di “Questo Buio Feroce” realizzato, diretto ed interpretato da Pippo Delbono, uno dei maggiori artisti del panorama teatrale italiano contemporaneo. Sicuramente non è stata una scelta semplice: già a partire dal tema affrontato, la morte, lo spettacolo di Delbono si mostra di forte impatto. Se ci si aspetta di andare a teatro e stare comodamente seduti ad assistere ad uno spettacolo fatto da una trama, una storia che ci intrattiene, ci diverte, ci colpisce o che dura solamente il tempo della rappresentazione, allora si è sbagliato genere. Non è lo stile di Delbono. Il teatro di Pippo Delbono è fatto di forti suggestioni, contrasti, atmosfere, voci e immagini che ci colpiscono e che ci rimangono impresse nella memoria anche dopo lo spettacolo. L’autore prende spunto dalla trama di un libro che casualmente ha l’occasione di leggere: è il romanzo autobiografico di Harold Brodkey, morto di AIDS, che gli si offre come ottimo pretesto per affrontare un tema tanto gravoso come quello della morte. Così, gli attori si alternano in una scenografia quasi inesistente, composta da grandi blocchi bianchi che rendono la scena asettica, irreale. Non sono semplici personaggi di una storia ma tanti casi della vita che raccontano il loro lento ed inesorabile avviarsi alla morte. Gli unici colori presenti in scena sono quelli dei costumi, d’epoca e contemporanei, vistosi e poveri, carnevaleschi e luttuosi, indossati dagli attori. È una sfilata di maschere che, al passo lento e cadenzato del valzer, si mostrano, una alla volta, al pubblico come per dire che la morte è destino comune di tutti gli uomini, non risparmia nessuno. Memore della lezione di Artaud e del suo “teatro della crudeltà”, inteso non nel senso di teatro di violenza ma che cerca la verità, scava nelle coscienze e mette in scena la cruda realtà, Delbono porta sul palco alcuni “casi umani” presi dalla strada, dalla vita reale. È il caso di Nelson, il barbone anoressico che si mostra mettendosi a nudo, rivelando al pubblico il suo corpo fragile ed esile in contrasto con una voce altisonante nella sua interpretazione da show di “My way” di Sinatra; o ancora di più Bobò, il microcefalo sordomuto che Delbono ha tolto dalla sua condizione di recluso in manicomio dopo ben 50 anni e lo ha reso protagonista di molte sue opere. Non c’è dialogo ma parole, sussurrate, gridate,
smorzate ed effettate. Da una voce fuori campo il narratore espone o introduce le storie dei vari personaggi che si susseguono sulla scena. A volte loro stessi narrano la loro vicenda, altre volte sono
muti perché basta guardarli o ascoltare il loro r e s p i r o a f f annoso perché r e s t i n o impr e s s i nella memoria. E poi c’è Delbono, vestito di bianco, che danza. È una danza fatta di gesti precisi, violenti, agitati come una disperata ricerca di sangue, di vita; una danza che lascia abiti e movenze convulse e diventa più docile sul finale, quasi liberatoria, dopo la morte quando si è finalmente venuti a conoscenza della tranquillità. Anche la luce diventa più dolce, tenue, meno accecante così come la penombra ha reso il bianco palco più sopportabile alla vista. Non è sicuramente uno spettacolo facile da raccontare: bisogna vederlo per capire il forte impatto emotivo che imperversa sullo spettatore che, per i 110 minuti dell’opera, assiste in silenzio a ciò di cui non si parla nella vita di tutti i giorni, che rimane quasi un tabù, che non si guarda ma che appartiene a tutti.
Eveline Bentivegna