Secondo stime ufficiali, i capitali italiani depositati in Svizzera e sfuggiti alle tasse sono circa 100 miliardi; secondo stime ufficiose, tra 120 e 200 miliardi di euro. Quelli rientrati effettivamente in Italia con lo scudo di Tremonti, pagando il 5%, non superano i 20 miliardi. Gli altri, per un totale di circa75 miliardi, sono rimasti in Svizzera, anche se è stata pagata la tassa. La fuga dei capitali all’estero è iniziata di nuovo – in realtà non si è mai interrotta – nel luglio del 2011, quando in seguito all’impennata dello spread si stava preparando la manovra di luglio seguita poi da quella di agosto-settembre. Con il cambio della guardia a Palazzo Chigi, i soldi in nero hanno accelerato la loro corsa verso la Svizzera, complice la manovra tutta tasse di Monti del dicembre scorso. Insomma, se la Svizzera ha avuto qualche motivo di attrito con Tremonti, colpevole di aver facilitato il rientro di capitali dalla Svizzera verso l’Italia, con Monti e la sua manovra, paradossalmente, la Svizzera, cioè le banche, hanno ripreso fiato. Il problema è complesso, perché se è innegabile che la Svizzera trae vantaggi enormi da una cospicua massa finanziaria proveniente di tutte le parti del mondo (si parla di duemila miliardi di franchi), è pur vero che alla Svizzera stessa non va di essere considerata come il paradiso fiscale nel cuore dell’Europa. Ecco dunque che, da sempre caratterizzata da pragmatismo, ha voluto anticipare conseguenze peggiorative che sarebbero potute nascere dall’applicazione della direttiva europea che impone, a partire dal 2017, un prelievo del 35% su tutti i capitali svizzeri depositati da cittadini comunitari. L’applicazione di questa direttiva innegabilmente allontana dalla Svizzera i capitali stranieri, dunque la corsa ai ripari è iniziata in grande stile, dapprima con un accordo sia con la Germania che con l’Inghilterra che prevede una tassazione una tantum tra il 19 e il 35% e negli anni successivi del 30-35% dei redditi finanziari; poi con l’offerta all’Italia dello stesso tipo di accordo. Tutto questo in cambio dell’anonimato del detentore dei depositi. In prima applicazione i miliardi che entrerebbero nelle casse dello Stato italiano sarebbero 10, con possibilità di 20 qualora si applicasse un’aliquota maggiore. Una cifra che di questi tempi non è indifferente.Negli anni successivi, sarebbe molto di meno, ma tutto sommato i detentori dei depositi di soldi in nero verrebbero a pagare comunque una quota più equa. Ecco perché Berna ha fatto trapelare che un accordo sarebbe auspicabile” anche con l’Italia. Monti, esattamente come prima di lui Tremonti, è molto prudente, anche se ultimamente è stato più possibilista, quando ha dichiarato che il governo sta ”valutando”. In realtà Monti sa bene che a siglare un accordo i vantaggi sarebbero più numerosi degli svantaggi, ma vorrebbe farlo nel quadro di un accordo europeo, anche se nessuno, finora, ha avuto da ridire sui singoli accordi con la Germania e con l’Inghilterra.
Con la Svizzera l’Italia ha anche un altro contenzioso, il ristorno ai Comuni italiani del 38 % delle tasse pagate dai frontalieri, mesi fa dimezzate unilateralmente dal Canton Ticino. Il migliore dei modi per combattere l’evasione e la fuga dei capitali all’estero è di fare un accordo vantaggioso per ambedue i contraenti, esattamente come la via migliore per fare un accordo non è, come ha fatto la Svizzera in materuia di ristorno delle quote dei frontalieri, quello di rompere unilateralmente accordi a suo tempo sottoscritti senza che nel frattempo sia intervenuto un nuovo accordo.