Nei primi tre mesi le assunzioni sono aumentate del 9% ma non è solo questione di occupazione. I nuovi agricoltori provengono da altre professioni
Si sta verificando un ritorno in campagna. A scegliere questa strada non sono soltanto giovani che accettano posti di lavoro in grandi aziende agricole (+ 9% nei primi tre mesi del 2013), ma anche quelli che si danno all’agricoltura. Effetto della crisi? Non proprio, visto che il fenomeno è iniziato anni fa, quando la crisi era ancora lontana. Effetto del richiamo delle tradizioni familiari? Non esattamente, visto che una parte di questi giovani non ha una “base” familiare. Effetto del ritorno alla natura? Può anche darsi per alcuni, stanchi della vita frenetica nelle grandi città. Effetto salutista, per godere dei prodotti fatti genuinamente? Possibile, anche se non per tutti. Insomma, il fenomeno del ritorno al lavoro dei campi può avere varie spiegazioni, tra cui la voglia di fare, di creare, di essere autonomi e felici, realizzando se stessi in una dimensione nuova. D’altra parte, è vero anche quello che dice il presidente della Coldiretti, Sergio Marini: “La campagna non è più sinonimo di arretratezza: tre giovani su quattro sono infelici al lavoro e scoprono l’agricoltura”.
Le storie sono differenti, ma tutte hanno una costante: il ritorno ai campi. Molti, ovviamente, da imprenditori, mettendo a frutto le loro capacità manageriali. Naturalmente, prima di fare il grande passo, è necessario un minimo di formazione, che ciascuno affronta come può, scegliendo i propri canali.
Ecco quello che dice Annamaria Musotto, 28 anni: “A 18 anni ho lasciato la Sicilia per studiare giurisprudenza a Milano, ho fatto la pratica da avvocato, sembrava tutto deciso. Ma c’era qualcosa che non andava. Due anni fa ho sentito che la mia terra mi chiamava, ho mollato e ho deciso di occuparmi del frassineto di famiglia a Pollina, in provincia di Palermo: ho deciso di puntare sulla manna, la resina dell’albero di frassino che, una volta essiccata al sole, si trasforma nel dolcificante più naturale e buono del mondo. Non è facile raccogliere la manna, e infatti può costare fino a 150 euro al chilo, e basta un piccolo cambiamento dell’umidità perché il raccolto si rovini. Ma non importa se dovrò lavorare a lungo prima di guadagnarci: ora sono felice”. Magari Annamaria Musotto si è accorta che la vita dell’avvocato non faceva per lei e si è ricordata del frassineto di famiglia e si sarà detto: meglio in campagna che in tribunale. La scelta è comunque interessante e piena di prospettive, data anche la giovane età della ragazza.
Paolo Rotoli, invece, 37 anni, ha fatto l’informatico per 15 anni. “Ma non ne potevo più”, dice, “sei anni fa ho lasciato contro il parere di tutti e ho deciso di mettere su un allevamento di capre, da cui ricavo latte per formaggi, dolci, gelati, e un piccolo agriturismo con fattoria didattica. Per partire ho dovuto impiegare il Tfr e ho chiesto qualche finanziamento, perché non c’era nessuna base di famiglia. Ma andiamo benino, basta lavorare sodo: non faccio più le classiche otto ore di ufficio, sono arrivato anche a 21 ore di lavoro consecutive, ma non mi pesano”.
Chiara De Miccolis, 35 anni, ha obbedito alla vocazione familiare: “Mio padre a 33 anni era carabiniere quando decise di tornare in Puglia e darsi alla campagna. Io invece mi sono laureata in Economia, ho messo su uno studio di arte grafica editoriale che andava benissimo. Ma nel 2007 ho deciso di dedicarmi al lavoro che davvero mi piaceva. E adesso eccomi qui: dall’olio produco saponi e creme idratanti”.
Si tratta di tre storie diverse, ma ciò che accomuna tutti e tre è la gioia di fare quello che piace, al di là del numero di ore di lavoro. Ma bisogna notare che queste tre persone hanno un’altra cosa in comune: vengono da regioni dove l’agricoltura rende, sia per i grandi appezzamenti di terra (quindi macchine agricole), sia per il clima favorevole, sia, ancora, per la disponibilità della materia prima: i campi. Infine, c’è un vantaggio: il mercato dei prodotti alimentari italiani tira, in Italia e all’estero. Il volume d’affari che concerne le esportazioni toccherà quest’anno, secondo le stime, ben 34 miliardi e le possibilità di crescita sono enormi, basti pensare ai tanti prodotti italiani contraffatti nel mondo o alle ditte italiane cadute in mano straniera che approfittando del marchio italiano vendono all’estero e intascano anche il ricavato. Lo spumante Gancia è diventato di proprietà di un oligarca russo, i salami Fiorucci, gli olii Carapelli e Bertolli sono diventati spagnoli, lo zucchero Eridania e l’orzo Bimbo francesi, la Peroni sudafricana, un’azienda di Chianti è finita in mani cinesi. Insomma, chi ha idee e capacità in questo campo trova tutto, anche la felicità.