Se inizialmente evitava di attraversare i villaggi, gli accadeva però, quando le scorte erano agli sgoccioli, se non proprio di inoltrarsi nei centri abitati, di costeggiarne le zone limitrofe, sperando di estirpare un ortaggio. L’area adiacente ai borghi era in effetti a disposizione degli abitanti, che potevano liberamente raccogliervi frutta o altri espurghi del suolo, liberare gli armenti sui pascoli, scuotere le fronde dei castagni e dei noci. Essendo necessari alla collettività, e appartenenti al demanio, questi beni spettavano a tutti: al punto che se si trovavano all’interno di un terreno privato, vi si poteva accedere anche senza il consenso del proprietario. Il contributo dei singoli era già compreso in tasse e balzelli non lievi; benché non di rado accadesse, come sempre, che gli indigenti pagassero proporzionalmente più dei benestanti.
Nella loro dura urgenza di vivere, i contadini coltivavano accuratamente il terreno da cui tiravano grano, frumento, orzo o segale; e, assecondando la scansione delle stagioni, alternavano legumi e grano, frutta e verdure: attenti che sui loro modesti deschi non mancassero aglio e cipolla. E dappertutto rosicchiavano olive o ne spremevano l’olio; e dappertutto innestavano vigneti, da cui estraevano un vino così brusco, da dovervi aggiungere, a moderarne l’asprigno, le spezie più inverosimili.
Fatta una cospicua ma non ingombrante scorta con la complicità della notte, Costantino, che quei prodotti sottraeva come un ladro, riprendeva a cavalcare per qualche ora, consumandoli in corsa; e quando il sonno e la stanchezza lo atterravano, si buttava dove gli capitava, per un po’ di riposo. Gli accadeva talvolta di trovare un giaciglio di frasche secche, approntato in baracche di paglia, accanto ai ruvidi strumenti di una cascina; ma se poteva, e se il luogo si sembrava sicuro, non mancava di accostarsi a un nucleo più grande, per un riposo più comodo.
Si guardava bene, tuttavia, dal dirigersi nei posti più ufficiali di accoglienza, disseminati lungo il cammino ogni quindici miglia, di cui conosceva le funzioni e le abitudini. Più di una volta gli era capitato, a capo di una legione, di montare l’accampamento nei pressi di queste mansiones, senza peraltro alloggiarvi, dal momento che ogni legione portava con sé un convoglio intero con tutto l’occorrente. Sapeva però che si trattava di stazioni sorte proprio sul luogo dove i soldati avevano una volta scavato una trincea; e che poi, col tempo, si erano organizzate fino a includere magazzini di provvigioni, e stanze per i viaggiatori di sevizio. Ma la loro origine militare permaneva nell’uso di appurare l’identità degli avventori, ai quali in compenso garantivano un’adeguata sistemazione: e proprio per questo Costantino escludeva che facessero al caso suo; così come non si fidava dell’asilo torbido delle cauponae, meno pretenziose delle mansiones, di cui svolgevano la stessa funzione; ma che, aprendo i battenti anche a ladri e prostitute, godevano di un’equivoca reputazione.
Siccome l’impazienza di arrivare in Britannia e il timore di essere raggiunto dai sicari lo pungolavano, per guadagnare tempo, inizialmente sostava solo nelle cosiddette mutationes: dove poteva ricorrere ai servizi di carrettieri, maniscalchi e veterinari; rifocillarsi alla meglio; trovare biada per il cavallo, o sostituirlo quando era stremato: memore della leggenda secondo cui, con questo sistema di staffetta, l’imperatore Tiberio in un solo giorno era riuscito a coprire cinquecento miglia, per correre al capezzale del fratello Germanico…
Solo dopo che ebbe superato le Alpi, e si sentì meno esposto, poté permettersi un rallentamento della corsa; e più frequentemente cercò ospitalità nelle tabernae, il cui credito variava col grado della comodità e dei servizi garantiti. Attraverso esse, e per tutto il resto del percorso, il futuro imperatore ebbe occasione di farsi una fulminea ma ampia cultura culinaria; senza mai rinunciare ad assaggiare le singolari specialità locali, con l’intento di conoscere gli usi e le tradizioni delle regioni percorse, invece di mettere mano alle solite gallette seccate al sole. E quando la tappa era stata più impegnativa, si consentiva persino un pranzo con più portate: dall’antipasto a base di sedano, navone, broccolo, lattuga e crescione, a un’enorme bistecca di vitello. Per non coprire i sapori, rinunciava al garum, la salsa dal sapore acidulo utilizzata su quasi tutti i piatti, che ogni oste sapeva ricavare dalla macerazione di pesciolini mescolati a sale, olio, vino, aceto e erbe varie; e che dava al cibo un gusto non molto dissimile dall’indocinese nuoc-nam. Ma se vi indulgeva, a neutralizzare l’effetto di questo intruglio non proprio prelibato, Costantino chiedeva un dolce a base di frutta o di miele, innaffiando il tutto col vino, aromatizzato e dolcificato per correggerne il sapore acidulo, in conseguenza di una lavorazione imperfetta o di una conservazione poco curata.
E così, proseguendo di stazione in stazione, nelle tabernae dove era possibile avere un pasto caldo, richiedeva di volta in volta una zuppa di pesce o di lardo; in un’altra ancora, carne bollita o arrosto. Gustò pane di grano, di orzo, di miglio; e persino di segale o avena, senza scoraggiarsi che fossero ritenute inadatte per la cottura al forno. Mangiò legumi cotti con aceto e olio; costine di agnello e maiale allo spiedo; e grigliate di cefalo, persico, scorfano e sgombro. Irrorò le pietanze di condimenti e spezie basilari. Accompagnò gli alimenti con estratti di cocomeri, zucche e meloni. Conobbe ogni sorta di latticini e formaggi.
Acquisì inoltre una rapida cultura di olive, nere e verdi, condite in agrodolce o marinate con miele, semi di finocchiella e mirto. Si nutrì di bruschette caserecce, bagnate d’olio e cosparse d’aglio; assaporò il formaggio alle erbe di Gallia, e il pecorino con coriandolo e ruta. Assaggiò verdure e ortaggi comuni e rari, come la pimpinella, la cicorietta, la borragine, il tarassaco, la dolcetta, la portulaca, la menta, il raponzolo, la malva, il crespigno, il rosolaccio, il cerfoglio, la finocchiella. Condì gli alimenti con pepe, sedano e prezzemolo. Prelibò dolci di ricotta e zucchero, insieme alla rucola, considerata afrodisiaca, e usata come bevanda rinfrescante; bevve acqua allo zenzero, decotto al basilico, infuso di fiori di gelsomino. E non mancò di gustare tutti i vini che gli venivano in tavola.
In questo lungo itinerario per la Britannia, verso cui pur correva affannato, Costantino imparava insomma fin dalla cucina a prepararsi al ruolo di reggente, assimilando da quei prodotti così diffusi nell’impero, e su cui palpitava il ventre popolano, molto meglio di quanto non avesse fatto con le delicatezze assaporate nelle capitali.
Né dimenticava mai, prima di ripartire, di riempire la fiaschetta dell’acqua rinfrescata con ciottoli; e quella del vino, alterato dal sapore di resina, a prolungarne la durata.