Morendo, Porfirio lasciava il testimone di tanto sentire interamente nelle mani di Giamblico: quello stesso dalla cui bocca Diocleziano aveva ascoltato ad Emesa l’alata lezione sull’amore, e col quale aveva scambiato l’intenso dialogo che l’aveva aiutato a superare lo scoramento per il disamore di Prisca. Sarà lui l’ultimo grande esponente del Neo-platonismo, e raggiungerà il maestro e il condiscepolo nel 331, anno di nascita di Giuliano. Avremo quindi ancora modo di incontrarlo, nel corso della nostra narrazione: ma intanto, nell’aureolato magistero di Emesa, continua a godere i frutti della sua fama, e a richiamare schiere di studenti da ogni parte dell’impero. Ché se pure all’abdicazione di Diocleziano l’Oriente era passato sotto Galerio, ciò non valeva per l’Egitto e la Siria, affidate a Massimino. E se mai quel rozzo cesare aveva avuto sentore dell’eccezionale statura del pensatore, ciò non aveva avuto alcun freno sull’attività di Giamblico: la cui posizione di dichiarato avversario dei cristiani lo metteva al riparo da accanimenti, e non intaccava il suo prestigio.
Ben diversamente erano invece andate le cose per il pavido Lattanzio, col quale ritorniamo a Nicomedia. Il retore, prudente giudice dell’opera di Diocleziano, a cui non aveva risparmiato critiche in privato, senza però mai formularne apertamente, dopo il ritiro dell’imperatore aveva appreso la differenza tra un sovrano severo ma leale, e uno bilioso e vendicativo. Finché l’impero era rimasto in mano a Diocleziano, non v’era stato posto per azioni gratuite. E noi sappiamo quanto l’imperatore avesse esitato prima di emanare gli editti, e quante perplessità nutrisse, oltre che sulla loro efficacia, persino sulla loro opportunità. Ma si trattava nel suo caso di un uomo complesso e responsabile, persuaso di agire per la salute dello Stato, e non vi si sarebbe mai avventurato per infierire su presunti nemici. Ben altro invece era il carattere di Galerio.
Non soltanto quest’ultimo l’aveva a lungo lavorato ai fianchi, per persuaderlo alla repressione; non solo non aveva mancato occasione per istillargli un sospetto, un dubbio, o un’esemplarità di pena. C’era di più. L’allora cesare nutriva un odio tanto sviscerato e irrazionale verso i cristiani, che l’ammantava sotto la maschera della sicurezza pubblica, per colpire la setta detestata. A quella frenesia non erano certo estranei la sua natura idolatra e gli intrugli nauseabondi della megera che l’aveva partorito; ma vi contribuiva anche il fatto che Galerio nutriva avversione contro ogni forma di virtù, in cui coglieva biasimo ai suoi vizi; non sopportava la probità, per non doversi torcere la coscienza; non stimava l’integrità, sapendosi basso e vile; non ammirava la grandezza, che ne offuscava la pretesa di eccellenza; non onorava la giustizia, calpestandola continuamente per esimersi dalla vergogna.
E se questo era, quando ancora non impugnava lo scettro, tanto più si accentuò la sua crudeltà, quando l’abdicazione di Diocleziano lo pose nella condizione di non dover rendere conto a nessuno. Allora il dispotismo prese ad imperversare con una ferocia non minore di Massimiano, del quale essendo superiore per intelligenza e lucidità, era più insidioso. Non era soggetto ai repentini colpi di testa dell’altro: ma proprio per questo le sue azioni, scaturite non da bizze ma da progetti, erano più letali e crudeli. Perché il male, quando non deriva da distrazione o leggerezza, ma dal puro gusto di operarlo, ammanta le sue ragioni di inderogabile necessità, che invece di azzerare la responsabilità, addita solo la matta bestialitade.
Sorprendentemente, nel caso di Galerio, questa perversità risparmiava solo la madre, verso cui nutriva un’affezione animalesca, fino alla venerazione; e la figlia Massimilla, nata da una cugina verso cui provava poco meno che disgusto, e che aveva dato in moglie quindicenne a Massenzio, figlio di Massimiano, perché solo nella razza dei suoi pari sapeva guardare con interesse. Eppure, quest’essere feroce, che oltre alle due summenzionate non provava sentimenti per nessuno, non aveva mai mancato di rispetto alla sposa. E se l’aveva concupita da par suo, le prime volte che l’aveva incontrata, dacché Valeria era diventata sua moglie, la trattava con una delicatezza inquietante. Di riflesso aveva poi esteso quella deferenza anche all’imperatrice Prisca, che, per sottrarre se stessa e Diocleziano all’astio dei convenevoli, dopo il matrimonio aveva seguito Valeria a Tessalonica. In realtà, quel riguardo, più che da delicatezza, scaturiva dal fatto che le due donne erano la figlia e la sposa di Diocleziano. Del quale Galerio, che pure talvolta si permetteva un’irriverenza, subiva il dominio: intuendo che non bastava la propria arroganza a sollevarlo al livello del predecessore; e che un titolo, di per sé, non può concedere l’autorevolezza che dispensa soltanto la magnanimità. Così il timore, il rispetto, l’ammirazione, l’invidia, e persino il cruccio che il loro peso nelle Storia sarebbe stato diverso, avevano confusamente deviato da Diocleziano un lucore sulla sua cerchia familiare: e Valeria e Prisca, ai suoi occhi, si aureolavano di un alone a cui non sapeva sottrarsi.
Se però trattava Valeria con riguardo, Galerio continuava a prendere le sue decisioni senza nemmeno ascoltare il parere della moglie. Come se, risoltasi sul piano coniugale, lei doveva poi ritrarsi, e non interferisse con i propositi di governo. Non provando nei suoi riguardi l’affetto debilitante di Diocleziano per Prisca, Galerio poteva permettersi di ignorare il parere della consorte, la cui contrarietà non lo scalfiva; le cui riserve non gli interessavano; la cui opinione riteneva solo dettata da debolezza muliebre. In maniera del tutto reciproca, invero: ché se pure consapevole dell’accortezza tenuta dal coniuge nei suoi riguardi, Valeria, calata nel suo ruolo di Augusta, si era assuefatta a non contrastare le decisioni dello sposo; e non si impegnava in inutili schermaglie, ritenendole sprecate con una persona verso cui non nutriva né stima né l’ammirazione. La vita era trascorsa a tramutare l’adolescente esaltata di un giorno in una matrona realista; e l’idea di rinuncia che le aveva inoculato la fede cristiana non aveva certo contribuito ad acuirne gli spigolosi. Sicché, deposte le fantasticherie di gioventù, all’età di trentacinque anni, senza figli, con un marito tiranno e una larva di madre, Valeria era ormai una donna che non si aspettava più nulla dal futuro; e viva solo di un idillio abortito, e si disponeva mestamente a morire.