Il disastro accaduto in Sardegna ha riproposto con urgenza il tema del dissesto idrogeologico del territorio italiano. Quando ci sono eventi meteorologici di tale intensità, evidentemente non si può impedirli, ma si potrebbe mitigarne la portata e la gravità se l’uomo – in questo caso lo Stato, gli enti locali e le sue ramificazioni – provvedesse a risistemare il territorio, riassestando letti di fiumi, argini, ponti, canali di scolo, eccetera. Vari decenni fa ogni volta che il Po straripava, faceva danni all’agricoltura, alle case, alle persone. Poi, furono fatti interventi mirati ed efficaci per impedire lo straripamento del fiume. Oggi il Po non fa più paura, a suscitare apprensione ogni volta che piove sono le innumerevoli zone a rischio frana in tutta Italia, perché poco o nulla continua ad essere fatto. D’altra parte, che il territorio sia abbandonato, lo si vede dalla sporcizia che regna lungo le strade, nelle città, nelle periferie, nelle campagne stesse, nei fossi e nei boschi, frutto dell’insipienza dei singoli e dei rappresentanti delle istituzioni locali e nazionali e ramificazioni varie.
Ogni volta che c’è un’alluvione, una frana, uno straripamento – e in Italia ce ne sono parecchie: oltre alla Sradegna, la Sicilia, la Liguria, per limitarsi alle ultime e più disastrose – a parte le polemiche sui ritardi dei soccorsi, emerge con prepotenza l’incuria degli uomini, ovvero delle istituzioni. S’invoca lo stato di calamità, si dichiara il lutto nazionale, straripa la retorica del dolore, si cerca un colpevole, che poi immancabilmente o è il sindaco del paesino o la Protezione civile, si mette una tassa per la ricostruzione e via, fino al disastro successivo, quando ricomincia puntualmente il rito delle responsabilità, dei soldi che mancano, e così via.
Dopo la tragedia in Sardegna, però, qualcosa è cambiato. Non a livello istituzionale o politico, ma ad opera di singoli esperti che, seppure in sordina, perché il dibattito viene subito soffocato sull’onda della concitazione di impegni generici, hanno rivelato una realtà paradossale. Su dati dell’Istat la Cgia (l’agguerrita Confederazione degli artigiani) di Mestre, ormai diventata un vero e proprio centro di studi in materia fiscale e commerciale, ha mostrato che non è vero che i soldi per affrontare il dissesto idrogeologico non ci sono. Ci sono, eccome, e sono anche tanti. Solo che – e questa è la seconda rivelazione – non vengono spesi, anzi, vengono spesi, ma per altri fini che per quelli per cui sono stati chiesti.
Ebbene, se ci si domandasse perché in Italia la benzina, l’elettricità, il gas e ciò che diremo fra poco costano di più che altrove, si scoprirebbe che i costi maggiorati dipendono dalle numerosissime tasse che gli italiani pagano proprio per l’ambiente. Una frazione del costo della benzina (accise), della bolletta dell’elettricità, del gas, del bollo auto, va a finire proprio sul capitolo “Ambiente”. Gl’italiani pagano tasse sulle emissioni di combustibili, sull’utilizzo dei veicoli a motori, sui sacchetti di plastica, sugli oli lubrificanti, sugl’imballaggi per le costruzioni, sui rifiuti, sulle fognature, sui biglietti aerei. Manca poco che mettano una tassa sull’aria che respiriamo (ma non lo diciamo forte perché se già non c’è la metteranno subito). Per farla breve, le tasse sull’ambiente fruttano allo Stato o agli enti locali la bellezza di 44 miliardi di euro all’anno. Nel ventennio 1990-2011 ha fruttato ben 800 miliardi di imposte ambientali, roba da rimettere in sesto tutto il territorio nazionale, e invece nel triennio 1990-1992 degli 80 miliardi di tasse, nemmeno un euro è stato speso per l’ambiente, mentre dal 1995 in poi solo l’uno per cento dei 44 miliardi annuali di tasse, cioè 448 milioni di euro, sono arrivati al territorio. Un nulla. E gli altri 43 miliardi e mezzo? Vengono spesi per altre cose, per tappare altri buchi, con il risultato che gli italiani continuano a pagare un mucchio di tasse, il territorio è sempre abbandonato e le tragedie si ripropongono immancabilmente ogni volta che la natura si scatena.