In Francia è scoppiata la polemica sul velo integrale e già l’eco è arrivata in Italia. Vediamo innanzitutto qual è l’oggetto della discussione.
Non è il velo che copre la testa, le orecchie, il collo, le spalle e il busto, nelle sue tante varietà, dal Chador al Khimar, dallo Shayla all’Al-Amira, dallo Jilbab allo Hijab. Sono due i tipi di velo – il Niqab e il Burqa – che coprono il viso. Il primo lascia scoperti solo gli occhi, il secondo invece copre tutto il viso, occhi compresi. La donna che indossa il Burqa può vedere solo attraverso una piccola “grata” di tessuto. Giusto per la cronaca, il Chador è usato in Iran e copre tutto il corpo, ma lascia scoperto il viso dalla fronte al mento, come tutti gli altri veli che comunque non sono oggetto di contestazione. Le differenze riguardano le dimensioni.
Ad esempio, il Khimar arriva fino alla vita; lo Shayla è una sciarpa rettangolare avvolta intorno alla testa e appuntata sulle spalle; l’Al-Amira è un velo in due pezzi: sotto è una specie di berretto aderente che trattiene i capelli e sopra un foulard tubolare che copre la testa, il collo e le spalle; lo Jilbab è un abito indossato su altri indumenti che copre tutto il corpo eccetto le mani e i piedi nascondendone comunque le forme, mentre il capo è coperto da una sciarpa o da un foulard; lo Hijab, infine, è una sciarpa o un fazzoletto che copre i capelli e solitamente il collo.
Ciò descritto, passiamo al merito dell’argomento. In Francia, una commissione parlamentare presieduta da André Gérin, comunista, ha presentato i risultati dei suoi lavori illustrando al Parlamento le linee generali di un possibile provvedimento di legge in materia. In sintesi la commissione, quasi all’unanimità, ha ritenuto che il Burqa vada vietato in quanto contrario alla dignità della donna e alla laicità dello Stato, alla dignità della donna come segno di oppressione e di segregazione; alla laicità dello Stato in quanto simbolo religioso. In poche parole, la commissione ritiene il Burqa “contrario ai valori della Repubblica”.
Fin qui, tutto bene. Le polemiche sono emerse quando dalla enunciazione dei principi si è passati ai divieti pratici, anche se questa seconda parte non riguarda più la commissione ma il Parlamento e le forze politiche. Perché i divieti è più facile enunciarli che metterli in pratica? Perché sono sorti tre problemi: come e dove vietare il Burqa e se è possibile vietarlo.
Quest’ultimo aspetto, quello giuridico, non è di poca importanza perché il divieto si scontra con i principi costituzionali delle libertà individuali. Tenuto conto di questo ostacolo, entrano in gioco gli altri due, cioè dove e come. Qui il discorso formulato dalla commissione si appunta sui luoghi dei servizi e degli spazi pubblici. In sostanza, se in linea teorica è possibile vestirsi come si vuole, trattandosi di una libertà che comporta anche aspetti di sicurezza, sarà anche legittimo indossarlo in mezzo ad una strada, ma in uno spazio riservato ad un servizio pubblico – trasporti, ospedali ed uffici – è legittimo, se non vietarlo, quantomeno non erogare il servizio.
Quindi niente tram e niente ospedali per chi indossa il Burqa o il Niqab. Ecco, per sommi capi questa è la cornice del dibattito, anche se va aggiunto che in Francia l’accento viene posto più che sulla sicurezza sulla compatibilità con i valori della società francese che riguardano l’uguaglianza e la laicità.
Dunque, no alle forme di discriminazione (e fin qui va bene) e no al simbolo religioso negli spazi e luoghi pubblici (e qui si apre un orizzonte di ragioni e contro ragioni che riguardano non solo i crocifissi e tutti gli altri simboli, ma anche forme, dimensioni e significati di simboli che sono sì religiosi ma che hanno assunto anche altri significati.
Ad esempio, un’impiegata della pubblica amministrazione può o no portare una collanina con una piccola croce o un piccolo Budda o altro segno con riferimento religioso? In Italia, il ministro delle Pari Opportunità, Mara Carfagna, si è detta favorevole al divieto del Burqa e del Niqab nei luoghi pubblici, per cui ha annunciato una commissione di donne immigrate che possano essere coinvolte nel dibattito. Pare di capire che la preoccupazione del ministro sia quella di non far apparire la misura come un atto ostile, ma come opportunità di integrazione e di emancipazione della donna stessa.
Ecco la sua dichiarazione: “Vietare il Burqa non significa togliere alle donne una libertà ma restituirla a coloro a cui è stata negata per troppo tempo”. È un fatto, però, che, contrariamente a quello che avviene in Francia, in Italia l’accento è posto più che sul velo integrale come simbolo religioso soprattutto come segno di discriminazione della donna e come problema di ordine pubblico (dietro il velo integrale può nascondersi un terrorista).
Per ora una proposta ragionevole è venuta da una immigrata marocchina, Souad Sbai, eletta due anni fa deputata in Parlamento, la quale, in una sua proposta di legge, estende al velo integrale lo stesso divieto che già esiste per i passamontagna e i caschi in luoghi pubblici, dunque ne fa un fatto di riconoscimento d’identità.