Se si sfogliano tutti i giornali dal primo marzo ad oggi – ma potremo dire senza tema di essere smentiti fino a due giorni prima delle elezioni (28 e 29 marzo) – ci sono due argomenti dominanti e uno assente.
Il primo dei temi di cui si parla ogni giorno, tanto da essere diventato una noia mortale, sono le liste elettorali o, per meglio dire, i ricorsi, i pronunciamenti dei tribunali, le non decisioni, quindi altri ricorsi e altre sentenze che non mettono mai la parola fine.
Insomma, in Italia derimere una questione civile e amministrativa è diventata impresa ardua. Parlando di questo argomento si rischia di entrare in un labirinto: si sa quando si entra, ma non si sa quando e se si esce, sempre che sarà possibile uscirne. All’origine fu la bocciatura della lista del Pdl a Roma e provincia, seguita da quella della Polverini, candidata alla Regione.
Per comodità d’esposizione tralasciamo la vicenda di Milano, simile a quella di Roma ma poi risolta definitivamente dal Tar di Milano, anche perché le firme di tutte le liste erano o fasulle o incomplete o fotocopiate, come del resto lo sono in tutte le regioni d’Italia. A Roma, invece, niente di tutto questo.
La Corte d’Appello boccia la lista, il governo approva un decreto interpretativo, il Tar del Lazio riammette la Polverini ma riboccia la lista del Pdl perché non tiene conto del decreto e applica solo il regolamento regionale, segue il ricorso al Consiglio di Stato il quale pronuncia una sentenza “aperta”, dichiara cioè “improcedibile” il ricorso e quindi, non essendoci un provvedimento di accoglimento o di esclusione, non chiude la vicenda.
Si apre la strada per un nuovo ricorso al Tar e quindi di nuovo al Consiglio di Stato. Se tutto va bene, la sentenza definitiva, per una serie di cavilli giuridici e amministrativi, si avrà – se si avrà – due giorni prima delle elezioni.
Assurdo, perché un’elezione senza due contendenti non è un’elezione. I leader che sostengono Bonino avevano subito dichiarato che non intendevano vincere a tavolino, ma poi in realtà operano e parlano per escludere. Avrebbero ragione se tutti gli altri fossero in regola, ma non è così. In Trentino Di Pietro fu escluso ma poi tutti furono d’acccordo a ripescarlo. Quando Rutelli fu candidato a premier nel 2001, per legge si doveva dimettere da sindaco di Roma tassativamente sei mesi prima della data delle votazioni, ma non lo fece e nessuno protestò perché fu applicato il principio che un’elezione per sua natura è competizione e senza avversari non c’è democrazia.
Nel Lazio la lista del Pdl è stata bocciata dal Tribunale di prima istanza perché i presentatori avevano sì lasciato gli altri documenti dentro il perimetro della sala di presentazione delle liste, ma uno di essi era uscito con la lista ed era rientrato tre minuti dopo, impedito e strattonato, a suo dire, dai rappresentanti dei radicali proprio per ostacolarlo nel rientro.
Comunque, resta il fatto che la magistratura non sta emettendo nessuna sentenza certa e che il decreto interpretativo del governo – firmato da Napolitano, minacciato tra l’altro di “impeachment” da Di Pietro, a sua volta criticato per questo dagli alleati – non è stato applicato ed è anzi oggetto di contestazione costituzionale dalla Giunta regionale laziale, orfana di Marrazzo, che ha invocato il pronunciamento della Corte Suprema.
Il risultato di tutto questo ginepraio di cavilli e istanze – e siamo all’argomento assente – è che non solo non c’è democrazia se la lista avversaria manca, ma non si sta nemmeno parlando di programmi politici. Sabato 13 marzo a Roma c’è stata la manifestazione del centrosinistra, sabato 20 sempre a Roma ci sarà la manifestazione del centrodestra, ma sia l’una che l’altra sono state e saranno manifestazioni di polemiche trite e ritrite sul piano personale. Il cittadino che voglia farsi un’idea di quello che vuole fare l’una e l’altra candidata una volta eletta non lo capirà certo dalle invettive.
E veniamo al terzo argomento, che è sempre quotidianamente ricorrente o nelle dichiarazioni degli avversari politici o negli atti di un settore della magistratura: l’antiberlusconismo, non solo come unico elemento di unione dei vari gruppi di sinistra, ma come bussola e unica preoccupazione di una parte della magistratura.
L’ultimo atto giudiziario contro Berlusconi è di un pubblico ministero di Trani che intercetta una conversazione tra il premier e il commissario di Agcom, Giancarlo Innocenzi – durante la quale il presidente del Consiglio si lamenta di Santoro e sostiene che bisognerebbe chiudere la trasmissione Annozero perché è faziosa e non degna di un servizio pubblico come la Rai – comunica l’argomento della conversazione a un giornale di sinistra (Il fatto quotidiano, su cui scrive Travaglio) e vuole indagarlo, tra l’altro con la contrarietà dello stesso procuratore capo di Trani.
Il ministro della giustizia ha mandato gli ispettori a Trani perché ha ravvisato almeno tre violazioni alle regole nel comportamento del magistrato, ma a parte questo, quello che a noi sembra assurdo è che da quando è nata la trasmissione di Santoro, questi non fa altro che accusare il premier delle peggiori nefandezze in tv, servizio pubblico, senza che vi sia reale contraddittorio e poi si pretende che il premier, al telefono, non possa esprimere la sua opinione e il suo giudizio sulla trasmissione stessa e sul suo conduttore.
Insomma, si arriva a criminalizzare anche un’opinione. Se questa è politica, se questa è serietà, allora noi non capiamo nulla.