Dopo la riconquista di Homs, in Siria si è aperta una fase nuova
La partita è ancora lunga, ma nei giorni scorsi in Siria è iniziata una fase nuova. Fase nuova non vuol dire necessariamente la fine del conflitto e la vittoria di Assad sugli insorti, ma potrebbe anche essere, perché in Siria è stato possibile ciò che in Libia non lo fu. In Libia, di fronte alle proteste degli insorti – ed anche alle loro violenze – ci furono anche le repressioni del regime, che cominciò ad usare carri armati ed esercito, per cui da violenza nacque violenza e gli scontri si fecero sempre più sanguinosi. Gl’insorti occuparono città e villaggi, ma Gheddafi pian piano cominciò anche a riconquistarle. La svolta avvenne con i raid degli alleati, che dovevano impedire a Gheddafi di usare le armi contro i civili e invece furono una guerra dichiarata a Gheddafi. Questo è quello che più o meno si è verificato in Siria nei mesi scorsi, fino a quando un quartiere di Homs non è stato preso dagli insorti siriani. Ed è a questo punto che la Russia e la Cina hanno fatto la differenza. Assad, infatti, ha ordinato di riprendere con la forza delle armi la parte di città occupata dalle opposizioni armate e, senza i raid dell’Onu, ha potuto riconquistare le posizioni perdute. In sostanza, secondo gli osservatori internazionali, Assad avrà la via spianata, perché quello che è successo a Homs potrà succedere altrove. Potrebbe essere per il regime l’inizio di una nuova fase che potrebbe vedere Assad capovolgere le previsioni fin qui fatte, cioè che nel giro anche di qualche anno avrebbe dovuto arrendersi o fare la fine di Gheddafi. Il fatto di poter contare sui militari uniti in suo sostegno è stato determinante. La rivolta è riuscita a creare un clima di vittoria, ma non la vittoria. Per arrivare alla vittoria o per intravederla avrebbe dovuto contare su una forza militare esterna o interna che non c’è mai stata. Tutto ciò rafforza indubbiamente Assad anche dal punto di vista politico e lui lo ha capito benissimo. Infatti, ha accettato la proposta dell’inviato dell’Onu, Kofi Annan, che ha presentato un piano in sei punti che prevede la fine delle violenze, il ritiro delle armi pesanti dalle città, la garanzia degli aiuti umanitari, la liberazione dei prigionieri politici, la libertà di accesso per i giornalisti, il diritto di manifestare. Come si vede, non c’è nel piano nessun riferimento alle dimissioni di Assad, altrimenti non ci sarebbe stato dialogo.
Se questi punti verranno rispettati da ambedue le parti, questo è da vedere. Probabilmente non sarà né facile, né automatico, ma potrebbe aprire prospettive più accettabili, sia per le opposizioni che per il regime. La difficoltà deriva soprattutto dal fatto che trattandosi di popoli non abituati alla democrazia, nessuno farà i passi necessari e conseguenti sulla via della pacificazione, ma tutti vedranno nell’avversario il nemico da cui liberarsi al più presto. Gli Usa hanno accolto l’apertura di Damasco con una dichiarazione del presidente Obama che ha parlato di “un passo importante”, ma si vede che è un’espressione puramente diplomatica, perché la Casa Bianca si è spinta troppo in là contro Assad per accettarlo come interlocutore superando il fossato scavato. Mosca, invece, ha giudicato positivamente sia l’apertura di Damasco, sia il fatto che le dimissioni siano sparite dalla trattativa e quando gl’insorti hanno continuato a chiedere le dimissioni di Assad Mosca ha detto che ciò era “impossibile”. Il presidente uscente della Russia, Dmitri Medvedev, ha chiosato con una dichiarazione che non lascia dubbi sulle posizioni di Mosca. Un’altra Libia non sarebbe stata permessa, ha detto riferendosi al fatto che anche lui diede il via libera alla no-fly-zone. Oggi, però, non lo rifarebbe, perché in Libia “non c’è più Gheddafi ma non c’è neppure la democrazia”.