Il 23 aprile il ministro italiano degli Esteri, Giulio Terzi, in Birmania
Dopo il (quasi) cappotto (43 su 44 seggi) assestato dalla LND (Lega nazionale per la democrazia), il partito di Aung San Suu Kyi, la Birmania è oggetto delle attenzioni delle democrazie occidentali, quelle dell’Europa innanzitutto, ma anche del Nord America. America ed Europa ora devono ritirare le sanzioni per favorire la svolta, che c’è stata già con la liberazione della maggioranza dei prigionieri politici e che si prevede che continui con la liberazione degli altri restanti, circa 150. Il cammino verso la piena democrazia e la pacificazione nazionale è lungo e pieno di ostacoli, ma le possibilità che il processo iniziato un anno fa con la presidenza Thein Sein porti a dei risultati concreti sono tante. Da una parte, c’è la volontà del partito vincitore – non tutto ma una buona parte, soprattutto per l’intervento del Premio Nobel – di non “scontentare l’altra parte”. Un partito che ha conquistato la maggioranza assoluta ma solo alle elezioni suppletive potrebbe irrigidire gli avversari – e sono tanti – del partito dei militari al governo, il quale non solo ha la maggioranza assoluta in Parlamento, ma ha dalla sua anche la Costituzione che, non va dimenticato, assegna ai militari il potere assoluto. Di qui la cautela, necessaria per non compromettere il dialogo futuro. Dall’altra, c’è il partito dei militari al governo, che hanno abbandonato l’uniforme, metà dei quali lavorano per far finta che nulla sia successo, anzi, vogliono difendere a tutti i costi i loro privilegi e il loro potere costituzionale, anche se la Costituzione è stata elaborata dai militari stessi che si sono riservati la maggioranza dei seggi. Dall’altra, ancora, ci sono i militari al potere che hanno abbandonato l’uniforme e anche i vecchi privilegi, primo fra tutti il presidente Thein Sein, che ha ascoltato le proteste dei cittadini che avrebbero dovuto fuggire dalle loro regione perché lì avrebbe dovuto essere costruita la diga più grande del mondo. “Prima di tutto il popolo”, disse Thein Sein, riecheggiando l’espressione più e più volte ripetuta dal Premio Nobel. Alla fine, Thein Sein, eletto presidente, fece seguire gli atti ai suoi dubbi, e decise di bloccare la diga di Myitsone, provocando il grande disappunto dei cinesi. Il nodo dei cinesi era stata la molla della svolta democratica in Birmania. Pechino, si sa, è in espansione un po’ dappertutto nel mondo, ma in particolare in Africa e nella zona ovest del Pacifico. I cinesi, però, hanno un grande difetto: vogliono portare infrastrutture e progresso ma soprattutto ai cinesi stessi. Le regioni dove essi sono presenti, in genere piene di risorse naturali, come appunto la Birmania, hanno un solo compito, quello di portare ricchezza alla Cina. Di questo i birmani sono consapevoli, di qui il tentativo di sganciarsi dall’ingombrante vicino, anche perché sia L’America per bocca di Hillary Clinton, sia l’Europa, hanno promesso aiuti economici e investimenti per aprire nuovi mercati per i loro commerci ma anche per portare sviluppo nella Birmania stessa che ha ricchezze enormi da sfruttare e nello stesso tempo una povertà diffusa. Basta dire che in moltissimi villaggi mancano sia l’acqua corrente che l’elettricità.
Hillary Clinton è stata in Birmania a dicembre scorso, il 23 aprile prossimo sarà la volta dell’Italia a compiere un viaggio che da una parte offre alla Birmania investimenti, dall’altra apre nuovi mercati per l’Italia. Ecco quello che ha dichiarato Giulio Terzi di sant’Agata, ministro degli Esteri: “Siamo in una situazione win-win, vincere-vincere, come diciamo noi diplomatici. E questo grazie ad Aung San Suu Kyi, un personaggio dalla caratura di Gandhi. Sempre di più sulla scena politica le donne dimostrano di avere una forza traente per la democrazia. Capaci con il loro coraggio di creare consenso e sostegno”.