E solo quando gli effetti del male avevano toccato da vicino un suo amico, Lattanzio aveva cominciato seriamente a rendersi conto di quanto esso fosse concreto, oltre le facili pose della retorica, perché ora, più delle fisime dell’intelletto, toccava i sentimenti. E aveva preso a riflettere sulle sue condizioni, possibilità, evoluzioni e progressi, per investigarne più da vicino le origini e il decorso.
Aveva conosciuto Donato fin dal suo arrivo a Nicomedia: dove il desiderio di entrare in contatto con personalità di spicco l’aveva portato a guardarsi intorno, per comprendere chi erano quelle più in vista. Ed essendovi giunto nel momento in cui più intensamente Diocleziano rivoluzionava l’aspetto urbanistico della città, affidandone il piano proprio a Donato, Lattanzio, calcolando che quell’architetto doveva contare, l’aveva cercato. Non senza però aver prima reso visita a Doroteo, lasciandosi precedere da una millantata raccomandazione di Porfirio.
Per natura benevolo e ospitale, Doroteo lo aveva ricevuto con calore, raccogliendo con gratitudine notizie sull’amico d’infanzia, che non aveva più rivisto dai tempi in cui aveva mutato il nome di Malco in Porfirio: senza neanche sorprendersi troppo che quel ragazzo intelligente avesse fatto tanta strada, anche se rammaricato di saperlo avverso ai cristiani. Lattanzio non aveva certo lesinato lodi vere e ipocrite sul filosofo intimamente detestato; e una volta conquistata la fiducia di Doroteo, aveva fatto in modo di essere introdotto negli ambienti colti di Nicomedia. E là, inevitabilmente entrato in contatto con Donato, poco a poco aveva imparato a conoscerne la probità, e a tramutare col tempo la frequentazione in amicizia, soprattutto dopo aver scoperto che l’architetto di fiducia dell’imperatore era un adepto, che della sua professione di fede non faceva nemmeno mistero. L’amicizia poi, favorita dal fatto di eccellere non nello stesso campo, il che li avrebbe inevitabilmente posti in competizione, si era rinsaldata con la scoperta di un comune sentire, al punto che solo a Donato il prudente Lattanzio osava esprimere riserve sull’imperatore: che però l’architetto, grato degli incarichi ricevuti, rintuzzava sempre con convinzione.
Il fatto era che Donato non aveva nulla della circospetta paura di Doroteo, di cui Lattanzio ricordava il terrore scolpito negli occhi, il giorno che l’aveva scorto arrancare verso la rampa del palazzo, per recarsi dall’augusta Prisca, da cui era stato convocato. Allora, del timore dell’eunuco, che dopo la nomina di Galerio a prefetto aveva tutte le ragioni per temere il peggio, i due amici si erano fatti un po’ gioco, senza pertanto evitare di chiedersi anche loro se qualcosa non stesse mutando nelle disposizioni dell’imperatore. E proprio là, davanti al palazzo ancora in costruzione, dove ancora si ergevano le impalcature dell’ala incompiuta, Lattanzio aveva espresso la delusione per l’accoglienza freddina ricevuta a Nicomedia, dove non aveva trovato nugoli di studenti avidi di ascoltarlo, come aveva sperato. E incapace di cercarne la causa nell’astrusità dei suoi contenuti, aveva biasimato il modesto investimento culturale di un imperatore così poco sensibile alla nobile arte della retorica, e solo preoccupato di riscuotere tasse e di edificare sontuosi palazzi, con uno spreco insensato di economia.
Lamentandosi tanto che quello stesso Donato, che un giorno sarebbe stato vittima degli editti, si era sentito in dovere di prendere le difese di Diocleziano, rintuzzando ogni critica palese o ammiccata, e adducendo, a conferma della sua lungimiranza, i tangibili risultati che stavano facendo di Nicomedia una degna emula di Roma. La cittadina di una volta, con la sua progressiva presenza di terme, teatri e altri edifici imponenti, nonché di un grande tempio cristiano, si stava trasformando in una capitale monumentale. E qui Lattanzio, malgrado le riserve, doveva ammettere che erano altri tempi, quelli in cui Diocleziano autorizzava la costruzione di luoghi di culto che ora venivano rasi al suolo; e che effettivamente i tempi erano mutati.
Come si fosse arrivati a questa tensione, di certo non avvenuta d’un colpo, non avrebbe saputo dirlo. Pure, ricordava la prima volta che aveva avuto impressione che qualcosa stesse accadendo, quando Diocleziano, al ritorno dalla campagna persiana, l’aveva convocato nel Consistorium. E proprio là, dopo le “priorità” passate in rassegna e annunciate come improcrastinabili, Lattanzio aveva intuito le ragioni di quella convocazione insieme a Donato e Doroteo, addetti a funzioni diverse, ma curiosamente accomunati dal fatto di essere convertiti. E non aveva mancato di fare speculazioni poco rassicuranti su quella coincidenza, allorché l’imperatore aveva fatto minacciosi accenni ad atti di insubordinazione e negligenza.
Quando poi Diocleziano aveva chiesto ragguagli sui lavori svolti a Nicomedia in sua assenza, senza affatto sapere cosa turbinasse sotto quella maschera glaciale, Donato aveva fatto un resoconto rispettoso delle direttive ricevute, a esclusione dell’imprevista ma felicemente compiuta edificazione della dimora dell’augusta. Una precisazione che il sovrano aveva accolto con impazienza, pur valorizzando la flessibilità dell’architetto, e soddisfatto che la città potesse ormai fregiarsi di un grande museo, di un vastissimo giardino botanico, e di una biblioteca zeppa di manuali di letteratura greca o di diritto romano. Opera, quest’ultima, particolarmente apprezzata anche da Lattanzio, ai cui occhi però essa però difettava della scandalosa assenza di testi sacri, presenti invero nei luoghi di culto autorizzati, come chiese e sinagoghe.
Sì, perché ancora una volta, anche in quella circostanza, Diocleziano non si era allontano dalla distratta indifferenza nutrita verso i culti più disparati: fino a lasciare edificare, nei pressi nel palazzo imperiale, una chiesa dove i cristiani, verso i quali aveva sempre mostrato tolleranza, potevano celebrare i loro culti, senza essere molestati. Dacché era diventato imperatore, non gli aveva mai impedito di frequentare i loro rituali o festeggiare i loro eventi, a condizione che non creassero problemi di ordine pubblico. Cosa di cui avrebbe presto avuto conferma dal vescovo di Nicomedia, che intendeva incontrare; e al quale avrebbe chiesto di conoscere il numero, l’identità, l’operato e la composizione della comunità cristiana. Nulla di grave, apparentemente. Ma quella volontà di approfondire la questione non era segnale di qualcosa?, si era chiesto Lattanzio. E da cosa scaturiva? E che cosa avrebbe comportato?
Non lo sapeva. Ma intuiva che, benché in assenza di una minaccia concreta, una nube stava oscurando la sorte dei seguaci di Cristo, e che presto tutto sarebbe cambiato.