Il Pd invita a rispettare le sentenze e ad eseguirle, mentre il Pdl ritiene la condanna viziata da faziosità politica
A tenere campo sui giornali, seppure con qualche pausa, è la vicenda Berlusconi. A venti giorni di distanza, la sentenza è stata forse metabolizzata ma su di essa le forze politiche e istituzionali si stanno avvitando in maniera pericolosa per il governo e il Paese.
Preceduta da una protesta del Pdl con richiesta di sospensione dei lavori parlamentari per assemblea di partito (ottenuta con il voto non di tutto il Pd e solo per 3 ore) – protesta attuata contro la sospetta accelerazione del processo in Cassazione – e preceduta anche da una dichiarazione politica secondo cui anche in caso di condanna la vicenda personale non avrebbe condizionato la vita e l’attività del governo, il 31 luglio la sentenza della Suprema Corte è stata di conferma della condanna a 4 anni (di cui tre condonati dall’indulto del 2007), con rinvio solo per quantificare gli anni di interdizione dai pubblici uffici. Subito dopo la condanna l’Italia politica si è divisa in due: quella che aspettava la condanna per liberarsi di Berlusconi politico ed uomo e quella che ha avuto la conferma della persecuzione messa in atto da giudici politicizzati.
Tralasciamo la manifestazione di solidarietà del Pdl al suo leader organizzata a Roma all’indomani della sentenza; sorvoliamo pure sul rischio connesso alla partecipazione o meno dei ministri Pdl, i quali poi hanno deciso di non partecipare su invito dello stesso Berlusconi, altrimenti il premier Letta sarebbe subito andato a rassegnare le dimissioni davanti al capo dello Stato; citiamo di sfuggita anche la posizione del Pdl riaffermata da Berlusconi in piazza sulla fiducia al governo e sulla necessità che esso continui a vivere e a lavorare per il bene del Paese; tralasciamo dunque tutto questo che ha tranquillizzato sia Letta che soprattutto Napolitano che attendevano dal leader Pdl un segnale di stabilità politica e mettiamo l’accento sulla posizione del Pd sulla vicenda e sulla tesi del Pdl sulla condanna.
Il Pd, attraverso il segretario Epifani, ha detto in sostanza che le sentenze si accettano, si rispettano e si eseguono. Questa dichiarazione, non seguita, almeno da parte della segreteria del Pd, da commenti accusatori, ha voluto da una parte non infierire contro l’avversario-alleato, dall’altra tranquillizzare, per la sua lapidarietà, la base. Lo stesso Epifani, prima della sentenza, aveva detto che in caso di condanna non sapeva se il Pd avrebbe retto, riferendosi alla difficoltà di accettare come alleato un partito con un leader condannato. Dopo la sentenza, dunque, la strategia del Pd è stata ed è quella di prendere atto di quanto avvenuto, di invitare ad accettarne le conseguenze, cioè accettare la decadenza da senatore o dimettersi prima del voto e continuare l’alleanza di governo con il Pdl, a cui solo sarebbe toccato decidere in merito al dopo Berlusconi, dando per scontata la necessità e l’opportunità, per lui, per il suo partito e per il Paese, che questi si facesse da parte.
Questa posizione, pur con parole e accenti molto diversi da parte di vari esponenti del Pd sia rispetto ai giudizi di ognuno su Berlusconi, sia rispetto alla lotta interna in atto nel dibattito congressuale del partito, continua ad essere tuttora valida. Vari esponenti del Pd, infatti, hanno dichiarato pubblicamente che voteranno a favore della decadenza, essendo questa automatica.
La tesi del Pdl, invece, è stata che la sentenza è un atto politico di giudici faziosi. Lo stesso Berlusconi ha messo l’accento sul fatto che negli anni cui si riferisce la condanna, il 2002-2003, su 567 milioni di euro di tasse pagate, al fisco ne sarebbero stati sottratti solo 7, cioè meno dell’1% (gli avvocati poi diranno che anche se fosse stato lui il responsabile al massimo avrebbe dovuto essere condannato a pagare il dovuto con una multa). Inoltre ha messo l’accento che lui dal 1994 non è più lui il responsabile giuridico di Mediaset, che comunque non aveva commesso nessun reato e che quindi era stato condannato da innocente.
Questa tesi probabilmente sarebbe stata ribadita in ogni occasione ma si sarebbe col tempo dissolta se un giornalista, Stefano Lorenzetto, non avesse rivelato quanto scrisse in tempi non sospetti, nel 2009, e cioè che il giudice di Cassazione, Antonio Esposito, che ha emesso la sentenza, era colui che in occasione della presentazione di un libro, aveva espresso giudizi pesanti su Berlusconi, definendolo “grande corruttore”, rivelando intercettazioni che lui non doveva conoscere su fatti intimi del leader Pdl e anticipando di due giorni le motivazione della sentenza che riguardava Vanna Marchi. Insomma, era la tesi del giornalista, il giudice Esposito era un nemico di Berlusconi e quindi lo ha condannato in quanto nemico. Come se non bastasse, è scoppiata la polemica dell’intervista apparsa su Il Mattino di Napoli, dove il giudice Esposito anticipa al giornalista (è un vizio) le motivazioni della sentenza appena emessa con una logica alquanto dubbia. Dice in sostanza: lo condanneremo non perché non poteva non sapere, ma perché Tizio, Caio e Sempronio hanno riferito che lo sapeva. Dopo di che, l’avvocato Coppi ha precisato che Tizio, Caio e Sempronio devono avere un nome e un cognome, che non esistono nella carte, dunque è (sarebbe) una sentenza viziata dal pregiudizio. In questo caso ci sarebbero gli estremi per un ricorso per “errore”.
Per ora possiamo dire che Napolitano gli ha riconosciuto la leadership politica ma che la grazia la deve chiedere lui e che lui non l’ha chiesta; che Berlusconi ha detto che non intende chiedere la grazia e che non mollerà; che il Pd è deciso a rimanere nell’ambito degli atti formali.
Insomma, la saga della politica e degli uomini politici che non riescono ad uscire dal pollaio continua imperturbabile.