Le due anime del partito sono su posizioni distanti, seppure accomunati dal riconoscimento del Cavaliere come unico leader. Beppe Grillo contro l’abolizione del reato di clandestinità
Come era facilmente prevedibile, nessun accordo è ancora intervenuto tra l’ala “governativa” e quella “lealista” del Pdl. La prima sostiene l’unità del partito attorno a delle scelte chiare di moderazione e di rispetto della politica delle larghe intese, con una definizione della leadership interna su posizioni moderate; la seconda invoca l’azzeramento delle cariche interne con un congresso che dovrebbe decidere sull’assetto del partito sulla base dei numeri e del consenso. Sono posizioni accomunate dal riconoscimento unanime della leadership di Berlusconi ma questo al posto di costituire una base per costruire è diventata una dichiarazione per continuare a perseguire ognuna il suo obiettivo, che è la conquista del partito.
L’ala alfaniana invoca la leadership, seppure con Berlusconi unico direttore e presidente, perché ritiene che la fiducia al governo abbia segnato la sopravvivenza del Pdl, che con la sfiducia lo avrebbe condannato alla marginalità politica e ad una rottura insanabile; quella dei “lealisti”, incarnata da Raffaele Fitto, invoca l’azzeramento degli incarichi perché ritiene che la maggioranza del partito e dell’elettorato sia con lui e con una politica sì di larghe intese, fin quando è possibile, ma non di sudditanza al Pd, perché in questo caso l’elettorato del Pdl e di Berlusconi evaporerebbe. Dunque, le posizioni sono distanti e nessuno cede.
Ha provato e sta provando Berlusconi stesso a far ragionare e a non dividersi. L’ex premier ha un solo obiettivo a questo punto della sua vita: salvaguardare l’unità della sua creatura e procedere nella concordia alla sua successione. Le cronache dei giornali lo dipingono impotente e sconfitto anche nel morale. Fra poche settimane ci sarà il voto definitivo sulla sua decadenza da senatore, ma questo non lo preoccupa, come non lo preoccupa nemmeno la sentenza del tribunale che dovrà decidere quanti anni dovrà stare lontano dai pubblici uffici, se uno o tre, come certamente deciderà il giudice. Lo tormenta, invece, la sua non agibilità politica, perché se sceglie i domiciliari non potrà parlare con nessuno (solo con i familiari conviventi) né uscire di casa, pena l’arresto per evasione, se sceglie, come gli avvocati hanno già fatto, l’affidamento in prova ai servizi sociali, avrà qualche movimento in più ma di fatto diventerà una tigre in gabbia. E’ vero che la decisione non avverrà, pare, prima di alcuni mesi, ma in primo luogo avverrà di sicuro, in secondo luogo ciò non fa altro che prolungare la sua fine nella mestizia e nell’imbarazzo.
Tenuto conto di questo scenario, dunque, lo stesso Berlusconi ha fatto vari tentativi per tenere unito il partito, ma non c’è riuscito. Un tempo avrebbe risolto tutto in poche ore, adesso, invece, a causa della condanna, riesce a dialogare con tutti ma non riesce a passare alla fase operativa legittimata da un accordo politico di pace interna. Sabato scorso, al termine del colloquio con Alfano, preceduto da quello con Fitto, c’è stato un comunicato in cui Alfano ha dichiarato che l’incontro era andato bene, perché ha ricevuto dal presidente del Pdl l’investitura e perché ha chiarito che non intende mai rinunciare al sistema bipolare, quindi non regge l’accusa di “centrismo” con Casini e Letta, e dunque è titolato a guidare il Pdl. Rafaele Fitto, non potendo smentire il Cavaliere, si appella a lui per “definire tempi e modi della ripartenza del nostro movimento, ma rimane fermo, insieme a tutti i “lealisti”, nel chiedere l’azzeramento degli incarichi. In sostanza, l’unità non c’è, e a questo punto bisogna chiedersi perché Berlusconi non riesce più ad imporre la sua volontà. Ebbene, la risposta è una sola. Prima era lui in persona a gestire la politica, ora non è più lui e questo vuol dire che è iniziata la guerra per la sua successione con la durezza che ogni guerra comporta, con il rischio, neppure tanto velato, di una rottura del Pdl in due pezzi, magari uniti da un patto federativo. Ma ciò fa dire ad un esperto di politica come Giovanni Orsina (Corriere di domenica) che, divisi, i due partiti saranno condannati alla marginalità sia elettorale che politica. La sfida all’ok corral è solo rimandata.
Passiamo in casa M5S per raccontare l’ennesimo caso di “insubordinazione” nel movimento. All’indomani della strage di immigrati di fronte a Lampedusa, a cui ne è seguita un’altra a distanza di soli nove giorni, sono in tanti ad aver invocato la modifica o l’abolizione della legge Bossi-Fini (come se a causare la strage fosse stata una legge), in particolare la norma che istituisce il reato di clandestinità per chi entra o soggiorna illegalmente in Italia, una norma approvata nel 2005 per scoraggiare l’arrivo di un’immigrazione di massa. Ebbene, il Pd ha proposto di abolire la norma e due senatori del M5S hanno presentato una proposta di legge, stabilendo un asse tra Pd-Sel e M5S. L’iniziativa non è piaciuta a Grillo che ha duramente polemizzato contro il giornale solitamente “amico” come Il Fatto Quotidiano di Padellaro e Marco Travaglio e contro i due senatori, smentendo l’apertura del M5S al Pd. Di qui, accuse e contro accuse da parte di Grillo ai due senatori perché “questa materia non è scritta nel programma”, “approvato da dieci milioni di elettori”; e da parte di Travaglio e Padellaro, ma anche del Pd, secondo cui nel M5S non c’è libertà. La polemica esterna e interna sarà oggetto di un incontro a porte chiuse tra il gruppo dei senatori e Grillo, quest’ultimo forte del suo carisma e in questo caso del consenso degli italiani che non vogliono aprire le frontiere a tutti indiscriminatamente.