Bocciati Fini, Bocchino, Granata, Di Pietro, Ingroia, Marini, Crosetto, La Russa, Bongiorno, Micciché, Sechi e vari altri
Dunque, il centrosinistra, per bocca di Bersani, è “primo ma non vincitore”. In quanto primo, sia alla Camera che al Senato, ha 340 deputati per effetto del premio fino al 55% dei seggi, per cui è maggioranza assoluta, ma ha solo 123 seggi al Senato, molto al di sotto della maggioranza richiesta, che è di 161 senatori, compresi quelli a vita nominati dal presidente della Repubblica.
Il Pd, dato sopra il 32-33% nei sondaggi, ha raggiunto il 25,41% alla Camera, superato dal M5S con il 25,55%. Al Senato è primo partito con il 27,43%, ma questo primato non gli è servito perché il premio di maggioranza è a livello regionale e nelle regioni più popolose (Sicilia, Lombardia, Veneto, Campania, Puglia, Abruzzo) è stato battuto dal centrodestra. Ciò che conta notare è che il Pd, come pure Sel, hanno ceduto parecchi al M5S di Grillo. A Grillo hanno ceduto in parecchi, dal Pdl (rispetto al 2008, ma come si sa, dal mese di dicembre in poi c’è stato un recupero di circa dieci punti) alla Lega e a Rivoluzione civile.
Cominciamo da quest’ultima, che ha deluso in primo luogo i loro leader, Antonio Ingroia e Antonio Di Pietro, tutti e due non eletti. In Italia l’estremismo – in questo caso moralistico e giudiziario – non paga, specie quando si ammanta di velleitarismo e di ambizioni strabocchevoli. Se Ingroia e Di Pietro si fossero alleati con il centrosinistra, alla Camera sarebbero stati ininfluenti, ma al Senato probabilmente avrebbero contribuito a conquistare la maggioranza assoluta, o quantomeno una maggioranza relativa più solida, tale da capovolgere la situazione attuale. Certo, sarebbe sorto il problema della convivenza degli uomini e dei programmi, ma lo stallo attuale non ci sarebbe stato. Ovviamente, col senno di poi, sicuramente i due leader “giustizialisti” si stanno mordendo le unghie, ma la colpa è solo loro. Ricordiamo che Di Pietro da una parte voleva accordarsi con il Pd, dall’altra attaccava aspramente Napolitano, da una parte staccava, dall’altra riattaccava la foto di Vasto. Di Pietro prima e poi Ingroia si sono rivelati dei leader individualisti, incapaci di fare squadra. Si pensi a Di Pietro: col capitale elettorale da cui partiva con l’aureola che si conquistò con le manette nella Milano del 1992-93 è riuscito prima a raggiungere il 3-4% nel 2006, poi l’8% nel 2008, ma al momento di dare prospettive ampie al suo movimento si è perso per strada facendo emergere sia il suo pochismo politico che quello morale, con la questione dei fondi gestiti privatamente lui, la moglie e Silvana Mura tramite un’associazione privata. Insomma, l’elettorato dell’Italia dei Valori si è vaporizzato migrando verso Grillo, leader protestatario e populista quanto si vuole ma almeno capace di circondarsi di mistero e capace di colpire il cuore di un elettorato stanco dei riti e dei personaggi della politica. Lo abbiamo notato già la settimana scorsa, la trovata “Arrendeteviiii! Soete circondatiiii!” gli ha fruttato almeno il 5%, se non di più, non tanto perché gl’italiani pensano che Grillo possa e sappia risolvere i loro problemi, ma per un fatto di protesta. Insomma, si sono detti in tanti, se devo esprimere un voto di protesta, tanto vale darlo a chi sa protestare per davvero, tra l’altro facendomi anche ridere.
Di Pietro si è dimesso da presidente dell’Idv, Silvana Mura ha detto che il partito c’è ed è danaroso. Magari Di Pietro tornerà a galleggiare, ma come leader non è più credibile. La sua parabola potrà risalire solo se si aggrega con il vincitore di turno.
C’è però un significato chiaro e netto che l’elettorato ha dato. Il centro non c’era e non c’è e difficilmente ci sarà. Casini si era messo in testa di formarne uno, lui e Fini, un paio di anni fa. Allora insisteva non solo sullo spazio di centro, ma anche sul partito della Nazione, il cosiddetto terzo polo. Alle elezioni amministrative dell’anno scorso, il fallimento del terzo polo (Casini, Fini e Rutelli) fu tanto evidente dalla percentuale ottenuta (uno scarso 4%), che lo stesso Casini ne decretò la fine. Poi venne Monti. Non riuscendo a sfondare elettoralmente da soli, Fini e Casini si sono nascosti dietro Monti. Il guaio è che lo hanno fatto senza motivare il loro tradizionale elettorato e senza accorgersi che lo stesso Monti, con la sua politica del rigore e delle tasse, ha affossato l’economia e impoverito la gente, alienandosi il favore del popolo. Insomma, il polo di centro ha di nuovo mostrato i limiti, sia dei personaggi che dei programmi. La novità è rappresentata da Grillo ma anche da un politico ormai consumato come Berlusconi, dato per morto e resuscitato, ma non da Casini, Fini o Monti. Il loro magro 10% sarebbe servito a formare una maggioranza assoluta alla Camera e al Senato al centrodestra, ma non è servito a nulla al centrosinistra. Fini non è stato nemmeno eletto, Casini è entrato per il rotto della cuffia ed è scomparso dalla scena politica.
Da notare la parabola di Fini. Nel 2006, ma anche nel 2008, aveva un partito, Alleanza Nazionale (An) al 12% e non ha saputo tenerlo unito, nemmeno dopo la fusione (volutamente) mancata con il Pdl. Quel 12% ora è diventato lo 0,46 di Fli, l’1,95 di Fratelli d’Italia, lo 0,64 di La Destra, che tutti e tre fanno un misero 3%, diviso tra centrodestra e centro. Oltre a Fini non sono stati eletti Bocchino, Bongiorno, Granata e, a destra, La Russa, Crosetto, Meloni, Storace.
Viceversa, è vivo e vegeto il centrodestra di Berlusconi, che era l’unico che credeva nella vittoria ma che mirava a non disperdere una forza politica e un elettorato, altrimenti non rappresentato, e ci è riuscito, risuscitando anche la Lega di Maroni.