In queste regionali 2010 sono emerse tre certezze.
La prima è l’aumento forte dell’astensionismo: rispetto al 2005 ha votato l’8% in meno, dal 71,4 al 63,6, il che significa che è cresciuta la fetta dei cittadini che non ha più fiducia nella politica.
È un campanello d’allarme di cui tutti devono tener conto.
La seconda certezza è che ha vinto in maniera netta il centrodestra, che ha strappato al centrosinistra ben 4 regioni (Piemonte, Lazio, Campania e Calabria, che si aggiungono alle due che aveva, la Lombardia e il Veneto), più la provincia de L’Aquila.
La terza certezza, di conseguenza, è che ha perso il centrosinistra, che delle 11 regioni che aveva ne ha salvate solo sette, le sue roccaforti tradizionali (Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Basilicata), più la Puglia e la Liguria, dove già comunque governava.
Campanello d’allarme, tuttavia, in Emilia Romagna, dove vince però quasi di misura, mentre nel 2005 aveva percentuali bulgare.
Ecco, se questo è il dato generale, vanno fatte alcune considerazioni.
Al di là del sette a sei – per il quadro completo al centrosinistra si aggiungono anche la Valle d’Aosta e il Trentino e fanno nove, mentre al centrodestra si aggiungono la Sardegna, l’Abruzzo, il Molise e il Friuli, e fanno 10, la Sicilia essendo un caso a parte – ciò che conta è che l’alleanza Pdl-Lega è maggioritaria dal punto di vista numerico e politico, con la conquista di regioni popolose come il Lazio, la Campania e il Piemonte.
L’alleanza Pdl-Lega fa sì che il Nord, cioè la parte più industriale d’Italia, non ritiene il Pd credibile.
Pdl-Lega sono molto forti al Nord, ma il Pdl, nel resto d’Italia, ha percentuali che superano il 30% e si situa tra il 24 (Emilia Romagna) e il 31, anche nelle regioni rosse (Toscana, Umbria e Marche).
Il Pdl non sembra essere il partito di plastica descritto dagli avversari.
Per rimanere nel centrodestra, bisogna aggiungere che la Lega al Nord è stata strepitosa, ma, a parte il Veneto (35%), è lontana dal sorpasso sul Pdl, e che a livello di governo nazionale è un partner fidato e propulsivo del Pdl, checché ne dica Gianfranco Fini, che esce di molto ridimensionato da questo confronto rispetto al leader del suo partito che resta Berlusconi.
Il Partito Democratico ha perso, a nostro avviso, perché continua ad insistere sull’antiberlusconismo, è succube di Antonio Di Pietro e dell’ala oltranzista e giustizialista della sinistra e fa propaganda, non politica.
La gente è stanca dell’odio e degli insulti, odio e insulti a cui hanno contribuito i vari Santoro, Travaglio e compagni, che pensano di attrarre voti facendo quello che vogliono e contemporaneamente gridando alla censura, alla mancanza di informazione e al premier come delinquente.
Questo aspetto sembra giovare a Di Pietro che raggiunge quasi il dodici per cento rispetto all’otto per cento che aveva totalizzato alle Europee.
Di Pietro vince ai danni del Pd, ma tutti e due sono votati alla sconfitta.
L’Udc si conferma ago della bilancia se sceglie il Pd (Liguria) o Il Pdl (Lazio), ma non va oltre il 4-5%.
Il sogno del grande centro resta una chimera.
Infine, a parte la Puglia con Nichi Vendola, per la sinistra alternativa è confermato il tonfo delle politiche, come lo è stato per i Verdi e per l’Api di Francesco Rutelli.
Ultimo flasch. Ora che si apre un periodo di tre anni senza elezioni, il governo farebbe bene a fare subito le riforme e ad ingranare una marcia in più per favorire la ripresa e l’occupazione, altrimenti i soli annunci avranno le gambe corte.