È finita! Ancora prima di incominciare. Già diversi anni fa, nel 2008. In quella Vienna, in cui, i prodi azzurri fecero gioco pari con la Spagna, astro nascente del calcio mondiale. Uscirono ai rigori, i ragazzi, al termine dei tempi supplementari e dopo aver sfiorato, ripetutamente, la vittoria nei novanti minuti dell’appassionante tenzone. Li guidava, ancora giovane allenatore, un piccolo grande uomo. Silenzioso e dallo sguardo un po’ triste: Roberto Donadoni, dal grande passato sportivo. Un uomo da “albero degli zoccoli”, il vecchio e i pomodori protetti dal tepore emanato dal muro della stalla, l’indimenticabile opera cinematografica di Ermanno Olmi. Era un grande quando saettava sulla fascia destra del Meazza in compagnia dei tulipani volanti,( Gullit, Rijkaard e Marco Van Basten) spinto alla meta dal grido del comandante Arrigo Sacchi, il sanguigno romagnolo della ciurma rossonera guidata dal capitano Franco Baresi. Fu cacciato e non si sa perché. E alla guida della squadra azzurra fu richiamato Marcello Lippi, il vincitore di Berlino, che, celebrato il trionfo, con il quarto titolo mondiale, vagò per il mondo cullando le dolci carezze della dea vittoria. Se ne andò, il Lippi, e fece bene. Come, per la verità, accadde con un suo celebre predecessore, il leggendario Bearzot del terzo trionfo madrileno. Finita la guerra, gli eroi, quelli buoni, da Cincinnato in poi, tornano ai lavori dei campi, seguendo l’esempio del leggendario condottiero romano. Il come e il perché, Lippi, accettò di tornare, sta scritto nello zodiaco delle galassie lontane. Chissà? Vanità. Presunzione. Amore per la “sporca dozzina” con cui, a Berlino, spennò la superbia dei galli.
Oppure, e forse indovino, in quei cervellini dei servi padroni guidati dal misero Abete, con l’aggiunta del bigotto Albertini, due tipi da cui, come s’ usa al mercato, non compreresti mai un’auto usata. E fu così che, laggiù, nell’Africa nera di Nelson Mandela, gli anziani guerrieri patirono lo scorrere impietoso del tempo. Fine. Si arrivò poi alla scelta del buon padre Prandelli. Un uomo onesto e sereno, persino un po’ troppo. Una persona che ama e vuole essere amata. Amata come sogna l’ antilope rincorsa da tigri affamate e feroci nel caldo infernale del Serengeti. Che vuoi, caro Prandelli, sei finito in un mondo non tuo. Come quando, rinunciando al ricco contratto, accorresti al fianco dell’amata aggredita dal morbo fatale. Non bastò per salvarla, richiamarla alla vita. Ma in quell’anno di dolore e d’amore, il Dio di Olimpia assistette all’evento accarezzando quell’anima in pena col tenue soffio del docile Eolo. Qualche buon risultato, europei e non solo. E poi, la disfatta. “Lontani dalla grande mela piccoli uomini nella favela”. Lo si intuiva da tempo. Si capì con chiarezza dalla reazione degli esclusi. Irridenti e volgari nei giudizi sulle scelte di Prandelli, lasciato solo alla guida della portaerei azzurra nel mare in tempesta. Inutile, sarebbe, ritornare al passato.
È successo. Punto e a capo. Come l’assurda pretesa- accolta- di Buffon ( grande portiere, piccolo uomo, l’ improvviso accecato del Meazza, che non vide un pallone due metri oltre la linea di porta) di tornare in campo nonostante la precaria condizione fisica. Gelosia per il giovane compagno Sirigu? Chissà? E le affermazioni del dopo disfatta. Con quel linguaggio da “cosa nostra”. Nell’accusare. Nel dire e non dire. Con l’assurda polemica sui vecchi e sui giovani, stroncata, sul nascere, dal mattacchione sincero, Antonio Cassano di Bari. Comportamento indegno, per un capitano. Da cui ci si aspetterebbero parole di forte e assoluta lealtà. Patrimonio, in un non lontano passato, dei grandi Scirea e Baresi.
E poi, quell’altro, Daniele De Rossi, a soccorso. Per lui, basterebbe il giudizio di Zeman, uno dei pochi maestri di sport, irriso, a suo tempo, da Moggi e dai servi al suo fianco. Oramai, tornando allo scempio dell’ oggi, abbiamo trovato il colpevole. È Mario, il nero che ama l’Italia perché qui vi è nato, scoprendo, già in tenera età, quanto è dura la sorte di chi ha un diverso colore. Balotelli, ti prego, non permettere, ai beceri perversi e faziosi, di occultare le infamie del loro triste agire grazie al tuo fare tra l’altero e indolente, da ragazzo viziato a cui è caduta una manna copiosa dal cielo. Coraggio! Affronta la vita. Anche in questo paese, che ha in parte perduto le antiche virtù solidali, qualcuno ti ama. E forse, saprà dirti cose di un certo e vero valore. Attendo, con poca fiducia, purtroppo, le scelte per un nuovo cammino. Due nomi accendono l’animo mio e dei tanti che non hanno portato il cervello all’ammasso. Non è mai troppo tardi. Richiamare alla guida degli azzurri, Roberto Donadoni, il bergamasco cultore dell’onestà e del lavoro, sarebbe un atto riparatore di una ingiustizia e dell’errore passato. Oppure, quell’altro, il Guidolin taciturno della terra friulana, educatore, maestro di vita e di sport. Due nomi, una sola certezza: farebbero bene. A Balotelli, perché, dismessa la cresta biondastra, sappia crescere e vivere il tempo di un compiuto destino. Ai giovani che verranno chiamati a rinnovare le sfide future. Allo sport italiano.