I forzati del Giro d’Italia hanno sfidato il monte dell’epica impresa di Coppi nel 1953
Nostalgia. Commozione. Tristezza per non essere con loro sull’ottavo tornante del Mortirolo, il tratto in cui l’antica mulattiera ti obbliga allo strappo sui pedali da sembrarti la scarica del fulmine che annienta l’abete nell’improvviso temporale dell’afa agostana. Lo zag del muscolo è come il gemito del capriolo morente trafitto dalla pallottola del bastardo bracconiere. Era conosciuto da queste parti per avere passato la vita a sterminare la migliore gioventù di quelle magnifiche bestie alpine. Eppure e nonostante i tanti guardia caccia, nessuno riuscì a braccare il nervuto, o forse, chissà?, era uno di loro. Il petto è gonfio per l’affanno del respiro che cerca invano l’ossigeno per l’ultima epica impresa.
Mi arresto sul bordo accanto al muro ove l’artista ha innalzato la figura in acciaio dell’uomo che va all’assalto dell’erta. Inutile, sembrami, svelare il mistero. Si tratta di lui, di Marco Pantani.
È il passato. Non so quando potrò ancora cimentarmi lungo le strade dei monti a me così care.
Il tempo e l’età mi sono nemici. Eppure, talvolta, riandando all’indietro, incoraggio me stesso.
Parto al sorgere dell’alba dopo aver divorato quel bastone di pane appena sortito dal forno, imbottito di formaggio dell’alpe e salame nostrano e bevuto il caffè al pentolino come si usava nelle case dei contadini di un tempo.
Quattro pedalate lungo la valle prima di svoltare a sinistra e salire verso il passo d’Aprica per scendere a picco su Edolo, la porta d’ingresso della valle Camonica.
Si sale sino a Ponte di Legno con pendenze di poco spessore per gli amanti ciclisti di un certo livello.
Da lì, i più impavidi –ero uno di loro- si inerpicano sino al passo del Gavia. In alcuni passaggi, sterrati e dalle pendenze mortifere, maledici il momento in cui ti è passata l’idea di un simile azzardo.
La distesa pineta lascia lo spazio a massi di roccia dal profilo addolcito nel corso di secoli e a rara sterpaglia da sembrarti marcare il confine del vivere umano.
Ancora non scorgi la sommità avvolta da una leggera foschia ma leggi lo scritto tracciato sul masso.
Coraggio! Al tornante che arriva, sei al km zero.
Mi ristoro al rifugio dell’ alpe osservando i cervi a zonzo sul costone che guarda a est verso Bormio e il parco dello Stelvio.
È trascorsa mezz’ora. Ripartire in picchiata verso Santa Caterina Valfurva e Bormio è un dolce sentire dopo le pene dell’erta.
Una volta (un paio di secoli fa!) azzardai l’omerica impresa affrontando lo Stelvio dopo tanta fatica.
Al culmine nulla più io ricordo se non dei palazzi che mi venivano addosso. I benevoli ostieri, dopo avermi liberato dal mostro d’acciaio, ebbero cura di me.
Da dove vieni? Da Sondrio, via Aprica e passo del Gavia per arrivare quassù.
Loro scossero il capo e ancora non so se pensarono al matto di turno o al pazzo mitomane.
Il Giro d’Italia è passato di qua.
E che Omero ritorni a raccontare le gesta di queste macchine umane intente a pestare i pedali.
Se prendono qualcosa di più di una Cola possono incorrere nell’ infame accusa di avere barato. Scoprire qualche anno più tardi, come affermava il toscanaccio Gino Bartali, “ che era tutto sbagliato, tutto da rifare”.
Fiumane di supporters, appollaiati sui massi dei colli, attendono il passaggio dei forzati come indiani in attesa di tendere l’agguato ai visi pallidi nel Canyon del west.
Gli organizzatori hanno macchiato il mito di Pantani portandolo alla sconfitta e al disonore e tolto sette Tour de France” a Lance Armstrong dieci anni dopo i suoi trionfi. Una immonda vergogna.
Nel frattempo, migliaia di giovani allievi al soldo delle associazioni sportive del bel paese, sono spinti a compiere il misfatto della vittoria alata, il truffaldino viatico per il sostegno finanziario all’attività.
Forse un anno di gloria e nulla più, se non la camera asettica di un qualche ospedale per curare il sangue e i reni devastati dalla pesticida pasticca.
Martedì 23 maggio i ciclisti del Giro d’Italia hanno osato sfidare il destino: il Mortirolo e a seguire, due volte lo Stelvio. L’arrampicata di cento e più cuori grondanti sudore e la picchiata verso il fondo valle a sfiorare il parapetto sull’orlo del burrone.
Al sommo della vetta dello Stilfser Joch qualcuno di loro avrà lanciato uno sguardo al busto del grande Fausto, (Coppi) l’Ettore immortale che il primo giugno del 1953 sorvolò la vetta, gli occhi spenti dalla fatica, per correre all’abbraccio della dea Atena in attesa al Pantheon della vittoria nel magnifico borgo.
Buona fortuna, miei prodi.