Si riparla di patti fiscali tra Svizzera e Italia ma una soluzione è ancora molto lontana. La Svizzera è interessata, l’Italia meno. Non che il nostro Paese abbia rinunciato a perseguire gli evasori fiscali e gli esportatori di capitali all’estero, ma cerca altre vie, ad esempio l’autodenuncia, ossia il cosiddetto “ravvedimento fiscale”. Funziona così. Si tratta di una nuova normativa che potrebbe rientrare nella legge di Stabilità che permette a chi detiene fondi all’estero illegalmente di autodenunciarsi e pagare le imposte con i relativi interessi di tutti gli anni non prescritti, ottenendo sconti sulle sanzioni. Della misura potrebbero approfittare solo coloro che non abbiano subìto verifiche. Trattandosi di un’autodenuncia, quindi di una rivelazione di identità, si sta studiando un intervento per evitare conseguenze penali per chi si autodenuncia prima di essere scoperto. Potrebbero essere previste sanzioni penali ma con “un’attenuante a effetto speciale” anche per chi si autodenuncia in seguito ad una verifica sul suo conto. Sui risultati di questa via ci sono dei dubbi molto diffusi tra gli stessi membri del governo.
L’altra via, che sembra interessare più il governo svizzero che quello italiano, è quella del “patto fiscale” tra i due Paesi, sul modello di quelli firmati con l’Austria e con la gran Bretagna. In Italia se ne è parlato molto nel 2011 e nel 2012, poi, a causa delle elezioni e dell’instabilità politica, ma anche a causa di diverse scelte che prevalgono nel governo italiano, è sceso il silenzio. Uno dei punti del patto con l’Austria consiste in una tassa liberatoria una tantum (che per l’Austria è compresa tra il 21 e il 41%) e in un’imposta annuale sulla rendita. Ad occhio e croce l’Italia potrebbe teoricamente incassare una somma di circa 10-15 miliardi nella prima applicazione del patto, di gran lunga meno negli anni a seguire dato il carattere di una tantum della liberatoria.
Perché allora l’Italia è tiepida di fronte a questa prospettiva? Ufficialmente perché il patto fiscale bilaterale non comporta la rivelazione dell’identità dell’esportatore di capitali all’estero, ma in realtà perché la sigla di un “patto fiscale” non riguarda soltanto i capitali italiani all’estero ma tutta una serie di altre materie, già oggetto dell’accordo italo-svizzero del 1974 sulla doppia imposizione fiscale, e cioè, appunto, oltre alla doppia imposizione fiscale dei cittadini italiani in Svizzera e dei cittadini svizzeri in Italia, anche la tassazione dei frontalieri e il ristorno di parte della tassazione ai Comuni d’origine (sollevato due anni fa dal Ticino) e il regime fiscale del Comune di Campione d’Italia. La contropartita e i vantaggi della Svizzera sarebbero la cancellazione della Confederazione elvetica dalla cosiddetta “black list”, cioè di essere considerata “paradiso fiscale” e un via libera alle imprese elvetiche – banche comprese – che vogliono operare in Italia. Ora ciò è precluso da tutta una serie di obblighi fiscali e amministrativi.
L’accordo sulla doppia imposizione, come accennato, risale a quasi quarant’anni fa e avrebbe davvero bisogno di essere rivisto.
L’Italia, però, nicchia e fa male. Magari spera che avendo aderito dal primo novembre di quest’anno alle norme Ocse sullo scambio automatico dei dati e sull’indebolimento del segreto bancario, la Svizzera fornisca l’elenco dei connazionali che detengono capitali nella Confederazione. Se questa è la speranza, il governo si sbaglia, perché in primo luogo il segreto bancario non è facile da scardinare, in secondo luogo chi detiene capitali all’estero spesso non sono nomi e cognomi, ma società anonime all’estero.
Scegliendo questa via, dunque, per l’Italia oltre alla beffa potrebbe esserci anche il danno.
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