Dopo due giorni di trattativa tra l’Onu e l’Iran sul nucleare le posizioni sono distanti. Per Israele è la solita “tattica dilatoria”
Anche se nessuno lo dice apertamente, a Teheran la crisi in Estremo Oriente trova un regime, quello degli ayatollah, interessato a che gli Stati Uniti siano oggetto di minacce, secondo il principio del “nemico del mio amico è anche mio nemico”. In sostanza l’Iran tifa per Kim Jong-un, anzi spera che si decida a passare dalle parole ai fatti. Per due motivi. Il primo è che Teheran spera così che il suo nemico americano venga danneggiato, nei suoi interessi economici, militari e d’immagine; il secondo è che così allontana da sé i riflettori internazionali e soprattutto dalla trattativa che ad Almaty, in Kazakhstan, si è appena svolta con esiti negativi sulla questione del nucleare iraniano.
I negoziati erano stati auspicati da tempo dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu e in particolare dai cosiddetti 5+1 (cioè Usa, Russia, Cina, Francia e Inghilterra, più la Germania) e quando il blitz israeliano sembrava essere più vicino per mancanza di dialogo, essi sono stati ripresi per insistenza di Teheran, per sventare, appunto, l’intervento del potente ed odiato vicino.
In Kazakhstan, però, le cose non sono andate per il verso giusto. Catherine Ashton, Alta rappresentante per la politica estera dell’Ue e coordinatrice del gruppo Onu dei 5+1, ha dichiarato che le “posizioni sono distanti” e che “non c’è comprensione reciproca”, un giro di parole per dire che la trattativa è stata un fallimento dopo appena due giorni. Addirittura non c’è stata nemmeno la fissazione di una data per la ripresa della trattativa stessa, il che basta da solo a certificare l’incomprensione.
Da parte del negoziatore ufficiale dell’Iran sul nucleare, Saeed Jalili, c’è stata una dichiarazione in base alla quale egli ha precisato di aver presentato un “piano operativo” ma che i suoi interlocutori hanno chiesto tempo per studiarlo.
Il fallimento dei negoziati non è una sorpresa per l’Occidente, non lo è in particolare per Israele, che anche nel recente viaggio di Obama a Gerusalemme, ha ricordato al presidente Usa che la data ultima di non ritorno è il mese di giugno prossimo: o si blocca il nucleare iraniano per via diplomatica o si è costretti a bloccarlo con dei blitz sui siti atomici. Circa un mese fa, Obama disse che la via diplomatica era la migliore, ma che se non ci fossero state novità e concretezza nella trattativa, l’America sarebbe stata disposta anche a passare a vie di fatto. “Non permetteremo”, disse Obama, “che l’Iran si doti di armi nucleari”.
Israele, dunque, non ha mai creduto che Teheran volesse rinunciare al nucleare ed ora ne ha avuta un’ulteriore prova. Ovviamente l’Iran parla del suo diritto ad avere il nucleare civile, non per scopi militari, ma nessuno crede al nucleare civile, non ci credono nemmeno in Iran. Da tempo l’Onu chiede all’Iran di portare sotto il 20% l’arricchimento di uranio presso il sito di Fordow, ma l’Iran sposta la materia della discussione e riafferma, appunto, il diritto al nucleare civile, sapendo che non può essere credibile in quanto un Paese che galleggia sul petrolio non può scegliere la via dell’atomo per l’approvvigionamento energetico. Dunque, tattica dilatoria da parte di Teheran e davvero ci vuole pazienza per non rompere definitivamente. La rottura comporterebbe il via libera al blitz, che a sua volta scatenerebbe la reazione iraniana che, a sua volta ancora, implicherebbe il ricorso ad una vera e propria guerra dagli esiti incalcolabili.
Ecco perché, dunque, gli americani, pur di fronte ad un nulla di fatto dei colloqui, hanno detto che “la trattativa non è stato un insuccesso totale”. Insomma, hanno messo, con un’abbondante dose di ottimismo, l’accento sul bicchiere mezzo pieno, nella speranza che ci sia sempre un ravvedimento all’ultimo momento. “La nostra intenzione”, ha detto un esponente americano, “è di andare avanti”.
A giugno mancano due mesi, forse tre se si considera la fine di giugno: un tempo sufficientemente lungo per riflettere sulle conseguenze della tattica dilatoria, ma sufficientemente breve per impedire il rombo dei bombardieri israeliani già con i motori accesi.