E di fronte a questa definitiva catastrofe, cercava una giustificazione, che dallo strazio per la perdita di un corpo si volgeva verso un vuoto senza attributi. Da cui un altro malessere sgorgava, che lo guidava a un pantano privo di coordinate. E invano Aurelio scrutava nel futuro una stella di riferimento; invano spiava una cometa a segnargli il cammino. In quella stagnazione, invero, incominciava a sentire che l’agire gli diventava indifferente, ogni sentiero si faceva arduo, e ogni andare brancolava nella nebbia. E non sapeva più in quale direzione muoversi, né riusciva a trovare una ragione a gesti e parole, da cui sembrava derivare solo dolore. Un dolore che offuscava il quadro gioioso della creazione, portandolo a sospettare sempre più del disegno divino, e a riproporre il problema del male, nelle sue sfumature ingiustificate. E affannosamente inseguiva una logica nel creato, dove la felicità generava sofferenza, e qualsiasi atto rischiava di produrre effetti privi di connessioni.
A lungo Aurelio aveva oscillato in questa perplessità, mentre non pochi mutamenti si producevano nella sua carriera e nella sua psiche, sviandolo dalla speranza al disincanto. E poco a poco, benché incline all’introspezione, aveva imparato a condividere il cameratismo da cui un giorno rifuggiva, e ad assecondare le circostanze che imbrigliano le aspettative. Aveva raccolto confidenze di estranei e tollerato gli scarti del caso; si era piegato a ridimensionare ideali e pretese nel flusso della normalità; aveva smorzato i propositi nella consuetudine e la presunzione di eccellenza nella norma. Aveva così compreso che la quotidianità assorbe le aspirazioni, e si profila come serie di scambi lungo un limitato segmento di arrendevolezza, mentre prima si dispiegava una perenne circonferenza. Il tempo l’aveva poco a poco indotto a percorrere le scontate stazioni di morte, corredate di volta in volta da esuberanza e tonfi; e dove le parole con cui adorniamo il baratro sono il manifesto della caduta dell’unicità verso la modestia del transito terreno. Nel quale solo, forse, pur tra disagi o ostilità, gli uomini ritrovano la solidarietà di rotolare lungo il medesimo pendio; e poi, una volta giunti a valle, sanno ancora consolarsi col rammarico o il rimorso di essere stati troppo spietati, nell’assecondare il fantasma di un orgoglio malsano che col suo rigore ha causato solitudine e astio, per non sapere scendere a compromessi con una decenza di fraterno sostegno.
Dall’esito di un cammino ormai esaurito, quanto sarà allora inutile volgerci indietro, a recuperare un frammento di balbo scambio di sillabe, una volta capace di lenire lo sconforto, e che ora, senza fare una grinza, ha gettato astio nel colloquio dei morituri. E inutilmente rimpiangeremo di esserci passati accanto indifferenti, ostili e inflessibili, per non scostare di un pollice la maschera senza cui ci sentivamo troppo esposti, e che ormai come una seconda pelle ci ha ingabbiati in una solitudine da cui non varrà più a trarci nemmeno la pietà della memoria, l’inutile misericordia del ricordo, impotente a lenire il male fatto, e ad ammorbidire il rigore che neanche per un momento ha frenato la smemoratezza che ci farà morire più poveri e disperati. E più niente varrà ad ancorare allo scoglio la flebilità delle risorse dissolte nel flusso radicale: e che ormai incapaci di colorare il grigiore della disillusione col roseo della speranza, sembrano accusarci del tradimento della promessa di una confusa felicità. E intanto le ore scandiscono i tempi della privazione, e un passo greve comprime ogni ambizione nel limo della mediocrità.
Aurelio aveva così imparato a mescolare il suo aristocratico sentire col turbinio plebeo della crapula, alternando alla necessità di ritirarsi con le reminiscenze più intime il cameratismo della vita sociale. Aveva fuso sensibilità e contesto, rendendosi gentile con tutti ma intransigente con se stesso: teso a una perfezione che nulla soddisfaceva, e che curiosamente scivolava nella volgarità: come se gli estremi coincidessero, e lo sforzo verso l’alto si specchiasse in una sublimità di abiezione, quasi volesse sfogarvi la rabbia verso la sconcezza di un’esistenza che non aveva saputo offrire i suoi doni. E se pur spinto da una spontanea generosità di soccorrere i bisogni altrui, sapendo che a volte anche solo un sorriso può allietare una giornata, raramente permetteva a qualcuno di penetrare nella sua difesa. Non per snobismo o arroganza, ma solo perché le batoste l’avevano allertato a proteggersi da schegge, che potevano provenirgli dai lati meno sospetti, siccome il male non aveva mittenti e obiettivi privilegiati, ma picchiava all’impazzata. E tanto scetticismo di difesa gli aveva eretto intorno una scorza che lo differenziava dal tribuno generoso di un giorno, non troppo diversamente di quanto a volte il rigore del ruolo assunto ispessisce la cute dei fanatici dell’incomunicabilità, e li scherma da qualsiasi cedimento di umana grazia.
Non sorprende allora che quella schietta finezza si fosse trasformata in una freddezza scostante, e che l’antica adesione alla vita si fosse irrigidita in una corazza di gelo. Di anno in anno, la fragilità emotiva si era dileguata, e l’attesa sognante aveva ceduto al disincanto; all’esaltazione della fede si era sostituita la cura dei valori umani, ben più concreti della celestiale delizia per cui non aveva meriti. Così la sua figura oscillante tra spirito e sensi aveva finito per affondare in un languore di carne, materializzandosi nelle sinuosità di corpi contorti nella passione, da cui raramente, del resto, emergeva soddisfatto.
Le sue inquietudini di cristiano pieno di dubbi, che nel gettare inchieste sull’esistenza anche nei momenti più controversi non disperava di trovare una logica, si erano ormai risolte in una lucida riserva; e lo sgomento di fronte all’incoerenza della vita, dove il valore si misurava con strumenti di morte e l’amore con la rinuncia e il rimpianto, l’aveva portato a comprendere quanto la nobiltà si lascia corrompere dalla brutalità. E per sopravvivere aveva imparato a districarsi tra indifferenza e cinismo; a galleggiare tra i miasmi della memoria; a tramutare in determinazione l’irresolutezza; a corroborare in propositi il languore. Aveva insomma acquisito l’urgenza di orientarsi interamente verso la terra: verso quei valori, cioè, che aveva creduto di poter ignorare con lo slancio verso l’alto, quando ancora sperava di trovare riscatto al male e alla sofferenza, e che ora assumeva come insuperabili orizzonti del suo transito.
Così i valori terreni gli apparivano sempre più come l’unica consistenza che serrava, e per la quale avesse un senso lottare, anche se prima o dopo anche loro gli sarebbero sfuggiti di mano. Ma anche se tutto finiva nella medesima dimenticanza, più niente doveva distrarlo dalle concretezze in cui coglieva l’autentico brusio del sangue; e se la gentilezza d’animo lo indeboliva talvolta, teneva a bada la tristezza con l’ironia, addomesticava il passato col futuro; e per riscattare la noia, che ormai planava sovrana sugli affetti, traeva bagliori di equilibrio da una confusa fibrillazione di lirismo.